lunedì 21 ottobre 2013

La gravità del necessario



Il traguardo, la meta, l’uscio di casa, l’ossigeno di realtà tangibili nella loro sostanza di realizzazione.
Il buio, l’oblio, il vuoto del suono silente del nulla più fraudolento e profondo.
La bellezza di sempre nuove aurore all’orizzonte, pronte a scaldare la pelle dell’umanità finché ci sarà vita in tutto quello che per semplificazione da massimi sistemi definiamo universo.
L’orrore della fine di tutte le cose, dell’inesistente, dell’invincibile oscurità che inghiotte e rumina senza scampo, senza tregua. “Aspetta! Forse riesco!”. No, non te lo concedo.

...quel vuoto carnale
che affligge le ossa di sorrisi spenti con la forza
eppure mai abbandonati ad un destino di elemosina.

Nel mezzo, tu, solo e soltanto, per sempre, tu. Senza sostegno se non uno ma indelebile ed eterno, senza agganci, senza sbocchi ma con una meta, senza direzioni ma con il tuo orizzonte, personale o comune che sia è pur sempre un orizzonte (e conosci bene il suo valore nella più totale assenza di gravità ideologica, di peso per costruzioni cognitive ormai illecite, clandestine, insozzate nel puzzo fetido di tutte le sanzionanti opinioni).

...l'illusione del recupero di quanto deliberatamente disperso...

Davanti, la luce non di una ma delle tante Terre ancora da esplorare con la sola forza del desiderio di fare di un primordiale dittongo cibo per prosperità oneste, magari, certo, caritatevoli a perdere ma sempre lì, pronte ad accogliere ogni spunto, ogni idea, ogni morso di passo in avanti. Dietro, solo rottami e detriti, gli unici bagliori nel buio più accecante, minacciano lo stato delle cose, la sospensione di costruzioni complesse ma compatte eppure così fragili nel loro esporsi a tiro pur se forti di lodevoli intenzioni, anche qui personali o comuni che siano. La distruggono, ne perforano il senso stesso e non tornano indietro, anzi concordano ulteriori appuntamenti ai quali sarà bene farsi trovare pronti.

Farla finita col giudizio di me stesso:
sogno d'una notte d'equivoco
in questo liquido e sterile regno

Ma il limbo della dannazione più rognosa e lacerante non ha vie di entrata né di uscita. Dovrai fartelo amico, questo nulla assoluto, graffiarlo, strozzarlo per spremerlo fino al midollo se davvero vorrai assaggiare la reale sostanza dell’ “inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.

Espiazione
della sola colpa di conservare un respiro.

Sì, esatto, proprio quell’inferno che da lì osservi come il paradiso dei paradisi, inconsapevole di operare solo per fingere di zittire il vero vuoto tutto intorno. Ma ciò che è intorno a te è ciò che sta dentro te, e sai bene che “più di tanto la rete non regge” l’incertezza delle tue azioni, in principio quelle interiori. C’è acqua o sabbia, tra le tue labbra? Sono valli incolte o monti acuminati i colori dell’ipnosi più regressiva? E quelle galassie tutto intorno, quanto ammaliano e quanto uccidono per davvero?

Esiste un non luogo,
in un non tempo,
dove alzarsi vuol dire conoscere un'ipotesi di presente,
dove morire
vuol dire predicare il verbo di longevità inaccolte.

Tra le sirene di una qualunque ipotesi di avvenire, tu cammina, corri, respira il debito aerobico delle verità più lontane e non voltarti, mai, pensando che sia un errore, un rischio troppo alto, una posta troppo dispendiosa da mettere in gioco.

...perire del proprio stesso lamento...

Perché ogni singolo ostacolo invisibile potrà solo far sì che la pesantezza del tuo rialzarti divenga sinonimo di forza aggiuntiva, da ultimo sforzo, quando la sabbia sarà imbevuta di acqua e il sale di tutti gli oceani accarezzerà una pelle nuova, arsa dal calore del ritorno.

...queste carni fin tropo secche,
fin troppo lacerate
da lame di recuperato
ed inspiegabile
calore latente.

Farò del mio grembo cerebrale il tempo per rinascere. Qui e adesso. Ritroverò ad ogni costo un contatto con quello che non resta, quello che fugge e si scompone di tutto ciò che credevo di poter trovare in questo non-luogo del dubbio, del mancato equilibrio, del fluttuante viandante portatore di esseri umani con l’ossigeno in riserva.

Lode
ad ogni gesto morale
di costernata riappacificazione.


[Versi tratti da Iride di Stefano Gallone, 2013:
http://www.lulu.com/shop/stefano-gallone/iride/paperback/product-21124037.html]

lunedì 7 ottobre 2013

Se hai vent’anni, vediamo se hai anche le palle di restare in Italia



Quanto segue è il risultato di quello che per anni e anni ho pensato in maniera frammentaria, magari sciocca, spesso in disaccordo col mio modo di vedere le cose ma libera anche di ricevere derisioni, pur benevole accuse di piagnisteo o (ben vengano sempre e comunque) duri giudizi toccanti anche (forse) un po’ per la persona. Quanto segue è la mia parafrasi di questo scritto:


segnalato da una persona (non l’autore perché non lo conosco personalmente) che ritengo e riterrò sempre un luminare della contemporaneità nonché esempio da seguire a prescindere, anche se da me, unicamente in questo caso, apertamente criticato, spero e credo in maniera abbastanza costruttiva, nel corso di una buona e, ritengo, necessaria discussione telematica avuta quest’oggi. Certo, forse non mi sono approcciato subito con fare molto scanzonato e me ne rendo conto. Desideravo, però, invece di essere giudicato subito un piagnone, di trovare dall’altra parte una risposta più o meno definitiva al mio pensiero e desiderio professional-vitale. Ben venga anche questo, naturalmente, purché ci sia dibattito. Lasciatemi, però, dire la mia anche in questo mio umile (e, a volte, penso inutile) spazio.

Se hai vent’anni, ma anche ventotto o ventinove, vediamo se hai, invece, le palle di restare in Italia. Certo, i tuoi amici, alcuni conoscenti o anche le persone che ritieni essere un esempio da seguire per vivere intellettualmente e spiritualmente secondo la linea che ritieni giusta, se non proprio indispensabile, ti diranno che stai farneticando, che se non pensi anche tu che fuggire via da questo paese, come fecero in principio i nostri avi circa un secolo fa (sempre a tirare in mezzo questo paragone magari giusto ma assurdo in prospettiva storicamente e antropologicamente contemporanea), sei solo un ipocrita o non fai altro che lamentarti di una situazione alla quale tu e soltanto tu non hai saputo porre rimedio muovendo il culo e sloggiando magari anche due o tre volte fino al punto da trovare quella tanto sospirata stabilità.

Se vuoi andare vattene, non ti trattiene proprio nessuno. Men che meno io che non ti conosco e che per te di certo non conto un cazzo. Anzi, sono felice se dimostri di avere un coraggio come questo, vale a dire più che enorme nel suo tentativo assolutamente disperato di ottenere il meglio, ripartendo più o meno da zero o da quel “tre” troisiano che tanto hai faticato a costruire, da te stesso e fuggendo da tutto ciò che il meglio dovrebbe impegnarsi almeno a provare a garantirtelo. Ma se il mondo cambia e la tua / nostra realtà se ne sbatte le viscere di mostrare segni di adeguamento ai tempi, non sei tu ad essere rimasto indietro, bensì qualcuno ti ci ha lasciato molto tempo prima, vale a dire pressappoco fin dal giorno della tua nascita. Sotto il nulla tu, io, lui, loro, tutti noi semi trentenni del 2013 ci siamo nati. Al massimo, se ti va, chiedi scusa per essere venuto al mondo proprio mentre iniziava il dibattito pubblico su Berlusconi, Nesta / Balotelli, giudici comunisti, puttane e compagnia bella qui o in televisione. La tua colpa più grande, forse, è il provenire da generazioni che questo nulla non lo hanno visto quando avrebbero dovuto o potuto arginarlo per estinguerlo, preferendo le discussioni inconcludenti all’oggettività del porre rimedio qui, oggi e subito. E oggi parlano ancora, ti dicono “vattene” senza condizioni e non accettano repliche perché così è e basta, stop, mentre tu stai mandando, bestemmiando tra i denti, l’ennesima mail o stai facendo la tua ennesima telefonata ormai abituato alle solite non-risposte. Hai già spento da un pezzo la tv perché non sei così coglione, a dirla proprio tutta, e non c’è bisogno che qualcuno te lo venga a ricordare. Proprio no. Se chiudere anche le dispense sia cosa buona e giusta scegli tu, a tua discrezione: tenerle aperte per “loro” o per te, solo per te, unicamente per te?

Ti direi anche io di andartene se per vent’anni hai vissuto con le stesse metro, gli stessi palazzi, gli stessi treni, gli stessi aerei. Andando via ti accorgerai senza ombra di dubbio come sono cambiate Londra, Parigi, New York in questi due decenni. Ma chi è che può veramente confermare che poi, metti caso, non ti venga la voglia di diventarne capace con tutte le forze e fare il tuo progetto di città innovativa futura? Naturalmente i “bla bla bla” si sprecheranno nella consapevole impossibilità di attuare senza malavita organizzata e mazzette quello che dal cervello hai steso su tanta carta. Ma chi lo sa per davvero e in via effettivamente più che definitiva? Esiste davvero la sfera di cristallo, secondo te? Vedi un po’ tu. A tua discrezione, anche qui.

Se fossi partito avresti visto i concetti di cultura, spirito e progresso sia interiore che esteriore diventare realtà più che tangibili, senza alcun dubbio. Ma se a chi ti dice con il cuore in mano “fai una cosa: vattene” tu rispondessi “no, col cazzo, io resto”, secondo il mio modesto e magari inutile parere dimostreresti di avere palle tanto grosse quanto quelle di chi va via e ricomincia tutto dal nuovo principio per l’ennesima volta. Se non di più. Il discorso non è affatto “chi resta resiste davvero”. No. Per niente. Il discorso è: chi resta ha scelto di lottare per la propria vita e la propria dignità in modo differente. E le palle? Dove sono le palle? Giusto: le palle sono nell’accettare anche la possibilità di riuscire a realizzare una parte dei tuoi obiettivi facendolo, però, con la lucida consapevolezza, fin dall’inizio e per sempre, che per quello che tu stai più o meno riuscendo a fare qui, altrove, per la stessa cosa, pagano oro. Tu però, magari, sei stanco di ricominciare ancora o non vuoi o non sei capace o non credi sia comunque giusto fare quello che dovresti avere la possibilità di fare qui in un altro posto, in un’altra lingua, in altri ambienti con altre persone, in altri contesti con altre prerogative e prospettive. Tu sei nato qui, in tempi bastardi ma sei nato qui e, forse, non è poi così da piagnoni pretendere di avere, un giorno, per quanto lontano possa essere, un minimo di quello che ti spetta lì, a casa tua o nei paraggi, ovunque tu sia nella tua nazione. Viaggiare ed entrare a stretto contatto con le altre realtà, più sviluppate o anche (molto meglio) meno sviluppate economicamente ma estremamente più sagge nell’anima, nello spirito, ti sarà ben più che indispensabile. Però nessuno, dico nessuno, nemmeno Gesù Cristo, Dio, la Madonna, San Pietro, Buddha, Maometto, Allah, Geova o chi per loro potrà mai allontanarti e dirti che stai sbagliando e basta, che non hai fatto altro che perdere tempo e iniziare male la tua vita a questo punto inutile.

Dimentica Genova, sì. Ma leggi, assorbi, vivi e commemora con interminabile devozione la persona e l’operato di Pier Paolo Pasolini, Peppino Impastato e Giancarlo Siani. Loro non sono scappati. Loro sono rimasti qui nella speranza concreta di cambiare almeno una piccola parte delle cose. Le cose sono cambiate, sì, ma in peggio, sempre peggio. E loro sono morti, certo. Uccisi tutti e tre. E allora abbi le palle di farti uccidere anche tu, pur soltanto dalla fame e dalla vita nei paraggi di un ponte ai bordi di un fiume lercio e puzzolente che spacca in due una città ormai assurda, morta, sepolta e putrefatta. Abbi le palle di dire, se è così: io so fare queste cose e queste cose farò fino a quando i miei unici amici non saranno unicamente i vermi dell’oltretomba, fino a quando non mi sarà dato quello che mi spetta, né più né meno. Virgola cazzo punto esclamativo, se preferisci. Non pretendere ricchezza se pensi di essere una persona onesta: non l’avrai. Pretendi la dignità di esigere il diritto di mantenere tutti i giorni un pasto decente sotto un tetto decente con la compagnia che più ami al mondo. Questo non potrà mai togliertelo nessuno. Questo mai potrà essere chiamato “catena”. Chi lo fa è lui l’ipocrita. Perché non sa niente di te. E parla ancora, ancora e ancora.

Sai bene che una laurea, ormai, non ti forma. Ma sappi anche che quello che ti viene imposto di studiare per un pezzo di carta inutile non è detto che non possa farti da trampolino di lancio tanto pratico quanto anche intellettuale per nuovi orizzonti che tu e soltanto tu saprai e potrai aprirti con la sola forza della tua ragione e delle tue ragioni. 

Del senso di comunità non ne hanno un bisogno vitale tutti gli esseri viventi di questo pianeta. È importante, senza ombra di dubbio, ma sai bene che c’è anche chi sa pensare alla propria persona e, assieme ai propri simili di qualunque parte del mondo, di qualunque religione, razza, etnia, condizione sociale e compagnia bella, attivare se stesso per il bene suo e di chi gli sta vicino.

Ascolta tutte le canzoni che vuoi, leggi tutti i libri che pensi possano parlarti davvero e fermati ad osservare tutti i film che desideri purché possano comunicarti una morale profonda detenendo, in essi, magari anche un probabile spiraglio di soluzione interiore. Perché è da dentro che parte ogni ipotesi di azione, quella che in tanti si riempiono la bocca a forza di chiamare “rivoluzione”. Se non hai niente dentro, non sei niente. E se i tuoi vorranno organizzarti una festa anche se hai preso uno schifo di triennale dopo dieci interminabili anni di affitti, rate accademiche, cibo pessimo, pochi amici veri e notti insonni bagnate dalle lacrime (ben diverse dal pianto) del tuo “starò facendo la cosa giusta?”, vorrà dire che ti amano davvero e davvero credono in te, convinti che, nonostante tutto, te lo meriti perché, anche se non sei un genio che tutto e ovunque può, non sei una cattiva persona e puoi e vuoi dare tanto a chiunque avesse voglia di ricevere qualcosa da te o da chi come te. 

Questo, chi sa soltanto dirti “vattene” perché così è e basta, non può saperlo, non può forse nemmeno capirlo. Perché pontifica dall’alto dello schermo di un computer e, pur non esternandolo, si innalza a salvatore della altrui pelle.

Io non saprò mai salvare la pelle né tua, né mia, né di nessuno al mondo. Io non ti dico “resta”. Ti chiedo soltanto: “avresti le palle di restare?”. Le spalle di un adulto si costruiscono, credo, anche sotto l’ombra oscura di questo pensiero scomodo e fastidioso ma solenne, un pensiero che tu e soltanto tu potresti essere capace di affrontare e trasformare in soluzione, una qualunque soluzione. Per diventare l’uomo che sarai, se ci riuscirai.

Te lo chiedo un’ultima volta. Io, tu, noi tutti: avremmo le palle di restare? Te lo chiedo dopo anni bui, notti insonni, lacrime (non di pianto) versate su cuscini sempre diversi e domande senza risposta a qualunque macchia di umidità sul soffitto. 

Avresti le palle di restare?