sabato 30 novembre 2013

Manuale terminologico del politico arrivista Clementoni

Bondi da Fazio è stato più istruttivo di un modulo accademico avanzato. 

Manuale terminologico del politico arrivista Clementoni. Capitolo 1. Basi da mescolare a cazzo --> Opposizione. Costruttivo. Interesse degli italiani. Utile per il paese. Innocenza. Magistratura. Contributo importante a questo paese. Giustizia. Accuse. Accanimento giudiziario. Spada di Damocle. Riformare. Tutti insieme. Cambiare. Crescere. Nuovo. Elezioni. Un terzo degli italiani.

[...] Interruzione per segnale sparito perché oltre ad avere l'antenna che non funziona manco per scherzo, ho anche commesso l'oltraggio di guardare nonna Rai in streaming, offendendo il pudore pubblico dell'usufruire di un contenuto in maniera "inappropriata".

Reload.

Manuale capitolo 1, parte II --> Serio. Scelte di carattere morale. Alleanza. Idee. Azienda. Coeso. Solidale. Classe politica. Manovra. Gli italiani giudicheranno. Fiducia. Leader nuovo. Forza politica liberale e riformista. Crisi. Disuguaglianze sociali. Imprenditori. Lavoratori. Impiegati. Operai. Cambiamento. Maggioranza. Percento. Credere.

lunedì 21 ottobre 2013

La gravità del necessario



Il traguardo, la meta, l’uscio di casa, l’ossigeno di realtà tangibili nella loro sostanza di realizzazione.
Il buio, l’oblio, il vuoto del suono silente del nulla più fraudolento e profondo.
La bellezza di sempre nuove aurore all’orizzonte, pronte a scaldare la pelle dell’umanità finché ci sarà vita in tutto quello che per semplificazione da massimi sistemi definiamo universo.
L’orrore della fine di tutte le cose, dell’inesistente, dell’invincibile oscurità che inghiotte e rumina senza scampo, senza tregua. “Aspetta! Forse riesco!”. No, non te lo concedo.

...quel vuoto carnale
che affligge le ossa di sorrisi spenti con la forza
eppure mai abbandonati ad un destino di elemosina.

Nel mezzo, tu, solo e soltanto, per sempre, tu. Senza sostegno se non uno ma indelebile ed eterno, senza agganci, senza sbocchi ma con una meta, senza direzioni ma con il tuo orizzonte, personale o comune che sia è pur sempre un orizzonte (e conosci bene il suo valore nella più totale assenza di gravità ideologica, di peso per costruzioni cognitive ormai illecite, clandestine, insozzate nel puzzo fetido di tutte le sanzionanti opinioni).

...l'illusione del recupero di quanto deliberatamente disperso...

Davanti, la luce non di una ma delle tante Terre ancora da esplorare con la sola forza del desiderio di fare di un primordiale dittongo cibo per prosperità oneste, magari, certo, caritatevoli a perdere ma sempre lì, pronte ad accogliere ogni spunto, ogni idea, ogni morso di passo in avanti. Dietro, solo rottami e detriti, gli unici bagliori nel buio più accecante, minacciano lo stato delle cose, la sospensione di costruzioni complesse ma compatte eppure così fragili nel loro esporsi a tiro pur se forti di lodevoli intenzioni, anche qui personali o comuni che siano. La distruggono, ne perforano il senso stesso e non tornano indietro, anzi concordano ulteriori appuntamenti ai quali sarà bene farsi trovare pronti.

Farla finita col giudizio di me stesso:
sogno d'una notte d'equivoco
in questo liquido e sterile regno

Ma il limbo della dannazione più rognosa e lacerante non ha vie di entrata né di uscita. Dovrai fartelo amico, questo nulla assoluto, graffiarlo, strozzarlo per spremerlo fino al midollo se davvero vorrai assaggiare la reale sostanza dell’ “inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.

Espiazione
della sola colpa di conservare un respiro.

Sì, esatto, proprio quell’inferno che da lì osservi come il paradiso dei paradisi, inconsapevole di operare solo per fingere di zittire il vero vuoto tutto intorno. Ma ciò che è intorno a te è ciò che sta dentro te, e sai bene che “più di tanto la rete non regge” l’incertezza delle tue azioni, in principio quelle interiori. C’è acqua o sabbia, tra le tue labbra? Sono valli incolte o monti acuminati i colori dell’ipnosi più regressiva? E quelle galassie tutto intorno, quanto ammaliano e quanto uccidono per davvero?

Esiste un non luogo,
in un non tempo,
dove alzarsi vuol dire conoscere un'ipotesi di presente,
dove morire
vuol dire predicare il verbo di longevità inaccolte.

Tra le sirene di una qualunque ipotesi di avvenire, tu cammina, corri, respira il debito aerobico delle verità più lontane e non voltarti, mai, pensando che sia un errore, un rischio troppo alto, una posta troppo dispendiosa da mettere in gioco.

...perire del proprio stesso lamento...

Perché ogni singolo ostacolo invisibile potrà solo far sì che la pesantezza del tuo rialzarti divenga sinonimo di forza aggiuntiva, da ultimo sforzo, quando la sabbia sarà imbevuta di acqua e il sale di tutti gli oceani accarezzerà una pelle nuova, arsa dal calore del ritorno.

...queste carni fin tropo secche,
fin troppo lacerate
da lame di recuperato
ed inspiegabile
calore latente.

Farò del mio grembo cerebrale il tempo per rinascere. Qui e adesso. Ritroverò ad ogni costo un contatto con quello che non resta, quello che fugge e si scompone di tutto ciò che credevo di poter trovare in questo non-luogo del dubbio, del mancato equilibrio, del fluttuante viandante portatore di esseri umani con l’ossigeno in riserva.

Lode
ad ogni gesto morale
di costernata riappacificazione.


[Versi tratti da Iride di Stefano Gallone, 2013:
http://www.lulu.com/shop/stefano-gallone/iride/paperback/product-21124037.html]

lunedì 7 ottobre 2013

Se hai vent’anni, vediamo se hai anche le palle di restare in Italia



Quanto segue è il risultato di quello che per anni e anni ho pensato in maniera frammentaria, magari sciocca, spesso in disaccordo col mio modo di vedere le cose ma libera anche di ricevere derisioni, pur benevole accuse di piagnisteo o (ben vengano sempre e comunque) duri giudizi toccanti anche (forse) un po’ per la persona. Quanto segue è la mia parafrasi di questo scritto:


segnalato da una persona (non l’autore perché non lo conosco personalmente) che ritengo e riterrò sempre un luminare della contemporaneità nonché esempio da seguire a prescindere, anche se da me, unicamente in questo caso, apertamente criticato, spero e credo in maniera abbastanza costruttiva, nel corso di una buona e, ritengo, necessaria discussione telematica avuta quest’oggi. Certo, forse non mi sono approcciato subito con fare molto scanzonato e me ne rendo conto. Desideravo, però, invece di essere giudicato subito un piagnone, di trovare dall’altra parte una risposta più o meno definitiva al mio pensiero e desiderio professional-vitale. Ben venga anche questo, naturalmente, purché ci sia dibattito. Lasciatemi, però, dire la mia anche in questo mio umile (e, a volte, penso inutile) spazio.

Se hai vent’anni, ma anche ventotto o ventinove, vediamo se hai, invece, le palle di restare in Italia. Certo, i tuoi amici, alcuni conoscenti o anche le persone che ritieni essere un esempio da seguire per vivere intellettualmente e spiritualmente secondo la linea che ritieni giusta, se non proprio indispensabile, ti diranno che stai farneticando, che se non pensi anche tu che fuggire via da questo paese, come fecero in principio i nostri avi circa un secolo fa (sempre a tirare in mezzo questo paragone magari giusto ma assurdo in prospettiva storicamente e antropologicamente contemporanea), sei solo un ipocrita o non fai altro che lamentarti di una situazione alla quale tu e soltanto tu non hai saputo porre rimedio muovendo il culo e sloggiando magari anche due o tre volte fino al punto da trovare quella tanto sospirata stabilità.

Se vuoi andare vattene, non ti trattiene proprio nessuno. Men che meno io che non ti conosco e che per te di certo non conto un cazzo. Anzi, sono felice se dimostri di avere un coraggio come questo, vale a dire più che enorme nel suo tentativo assolutamente disperato di ottenere il meglio, ripartendo più o meno da zero o da quel “tre” troisiano che tanto hai faticato a costruire, da te stesso e fuggendo da tutto ciò che il meglio dovrebbe impegnarsi almeno a provare a garantirtelo. Ma se il mondo cambia e la tua / nostra realtà se ne sbatte le viscere di mostrare segni di adeguamento ai tempi, non sei tu ad essere rimasto indietro, bensì qualcuno ti ci ha lasciato molto tempo prima, vale a dire pressappoco fin dal giorno della tua nascita. Sotto il nulla tu, io, lui, loro, tutti noi semi trentenni del 2013 ci siamo nati. Al massimo, se ti va, chiedi scusa per essere venuto al mondo proprio mentre iniziava il dibattito pubblico su Berlusconi, Nesta / Balotelli, giudici comunisti, puttane e compagnia bella qui o in televisione. La tua colpa più grande, forse, è il provenire da generazioni che questo nulla non lo hanno visto quando avrebbero dovuto o potuto arginarlo per estinguerlo, preferendo le discussioni inconcludenti all’oggettività del porre rimedio qui, oggi e subito. E oggi parlano ancora, ti dicono “vattene” senza condizioni e non accettano repliche perché così è e basta, stop, mentre tu stai mandando, bestemmiando tra i denti, l’ennesima mail o stai facendo la tua ennesima telefonata ormai abituato alle solite non-risposte. Hai già spento da un pezzo la tv perché non sei così coglione, a dirla proprio tutta, e non c’è bisogno che qualcuno te lo venga a ricordare. Proprio no. Se chiudere anche le dispense sia cosa buona e giusta scegli tu, a tua discrezione: tenerle aperte per “loro” o per te, solo per te, unicamente per te?

Ti direi anche io di andartene se per vent’anni hai vissuto con le stesse metro, gli stessi palazzi, gli stessi treni, gli stessi aerei. Andando via ti accorgerai senza ombra di dubbio come sono cambiate Londra, Parigi, New York in questi due decenni. Ma chi è che può veramente confermare che poi, metti caso, non ti venga la voglia di diventarne capace con tutte le forze e fare il tuo progetto di città innovativa futura? Naturalmente i “bla bla bla” si sprecheranno nella consapevole impossibilità di attuare senza malavita organizzata e mazzette quello che dal cervello hai steso su tanta carta. Ma chi lo sa per davvero e in via effettivamente più che definitiva? Esiste davvero la sfera di cristallo, secondo te? Vedi un po’ tu. A tua discrezione, anche qui.

Se fossi partito avresti visto i concetti di cultura, spirito e progresso sia interiore che esteriore diventare realtà più che tangibili, senza alcun dubbio. Ma se a chi ti dice con il cuore in mano “fai una cosa: vattene” tu rispondessi “no, col cazzo, io resto”, secondo il mio modesto e magari inutile parere dimostreresti di avere palle tanto grosse quanto quelle di chi va via e ricomincia tutto dal nuovo principio per l’ennesima volta. Se non di più. Il discorso non è affatto “chi resta resiste davvero”. No. Per niente. Il discorso è: chi resta ha scelto di lottare per la propria vita e la propria dignità in modo differente. E le palle? Dove sono le palle? Giusto: le palle sono nell’accettare anche la possibilità di riuscire a realizzare una parte dei tuoi obiettivi facendolo, però, con la lucida consapevolezza, fin dall’inizio e per sempre, che per quello che tu stai più o meno riuscendo a fare qui, altrove, per la stessa cosa, pagano oro. Tu però, magari, sei stanco di ricominciare ancora o non vuoi o non sei capace o non credi sia comunque giusto fare quello che dovresti avere la possibilità di fare qui in un altro posto, in un’altra lingua, in altri ambienti con altre persone, in altri contesti con altre prerogative e prospettive. Tu sei nato qui, in tempi bastardi ma sei nato qui e, forse, non è poi così da piagnoni pretendere di avere, un giorno, per quanto lontano possa essere, un minimo di quello che ti spetta lì, a casa tua o nei paraggi, ovunque tu sia nella tua nazione. Viaggiare ed entrare a stretto contatto con le altre realtà, più sviluppate o anche (molto meglio) meno sviluppate economicamente ma estremamente più sagge nell’anima, nello spirito, ti sarà ben più che indispensabile. Però nessuno, dico nessuno, nemmeno Gesù Cristo, Dio, la Madonna, San Pietro, Buddha, Maometto, Allah, Geova o chi per loro potrà mai allontanarti e dirti che stai sbagliando e basta, che non hai fatto altro che perdere tempo e iniziare male la tua vita a questo punto inutile.

Dimentica Genova, sì. Ma leggi, assorbi, vivi e commemora con interminabile devozione la persona e l’operato di Pier Paolo Pasolini, Peppino Impastato e Giancarlo Siani. Loro non sono scappati. Loro sono rimasti qui nella speranza concreta di cambiare almeno una piccola parte delle cose. Le cose sono cambiate, sì, ma in peggio, sempre peggio. E loro sono morti, certo. Uccisi tutti e tre. E allora abbi le palle di farti uccidere anche tu, pur soltanto dalla fame e dalla vita nei paraggi di un ponte ai bordi di un fiume lercio e puzzolente che spacca in due una città ormai assurda, morta, sepolta e putrefatta. Abbi le palle di dire, se è così: io so fare queste cose e queste cose farò fino a quando i miei unici amici non saranno unicamente i vermi dell’oltretomba, fino a quando non mi sarà dato quello che mi spetta, né più né meno. Virgola cazzo punto esclamativo, se preferisci. Non pretendere ricchezza se pensi di essere una persona onesta: non l’avrai. Pretendi la dignità di esigere il diritto di mantenere tutti i giorni un pasto decente sotto un tetto decente con la compagnia che più ami al mondo. Questo non potrà mai togliertelo nessuno. Questo mai potrà essere chiamato “catena”. Chi lo fa è lui l’ipocrita. Perché non sa niente di te. E parla ancora, ancora e ancora.

Sai bene che una laurea, ormai, non ti forma. Ma sappi anche che quello che ti viene imposto di studiare per un pezzo di carta inutile non è detto che non possa farti da trampolino di lancio tanto pratico quanto anche intellettuale per nuovi orizzonti che tu e soltanto tu saprai e potrai aprirti con la sola forza della tua ragione e delle tue ragioni. 

Del senso di comunità non ne hanno un bisogno vitale tutti gli esseri viventi di questo pianeta. È importante, senza ombra di dubbio, ma sai bene che c’è anche chi sa pensare alla propria persona e, assieme ai propri simili di qualunque parte del mondo, di qualunque religione, razza, etnia, condizione sociale e compagnia bella, attivare se stesso per il bene suo e di chi gli sta vicino.

Ascolta tutte le canzoni che vuoi, leggi tutti i libri che pensi possano parlarti davvero e fermati ad osservare tutti i film che desideri purché possano comunicarti una morale profonda detenendo, in essi, magari anche un probabile spiraglio di soluzione interiore. Perché è da dentro che parte ogni ipotesi di azione, quella che in tanti si riempiono la bocca a forza di chiamare “rivoluzione”. Se non hai niente dentro, non sei niente. E se i tuoi vorranno organizzarti una festa anche se hai preso uno schifo di triennale dopo dieci interminabili anni di affitti, rate accademiche, cibo pessimo, pochi amici veri e notti insonni bagnate dalle lacrime (ben diverse dal pianto) del tuo “starò facendo la cosa giusta?”, vorrà dire che ti amano davvero e davvero credono in te, convinti che, nonostante tutto, te lo meriti perché, anche se non sei un genio che tutto e ovunque può, non sei una cattiva persona e puoi e vuoi dare tanto a chiunque avesse voglia di ricevere qualcosa da te o da chi come te. 

Questo, chi sa soltanto dirti “vattene” perché così è e basta, non può saperlo, non può forse nemmeno capirlo. Perché pontifica dall’alto dello schermo di un computer e, pur non esternandolo, si innalza a salvatore della altrui pelle.

Io non saprò mai salvare la pelle né tua, né mia, né di nessuno al mondo. Io non ti dico “resta”. Ti chiedo soltanto: “avresti le palle di restare?”. Le spalle di un adulto si costruiscono, credo, anche sotto l’ombra oscura di questo pensiero scomodo e fastidioso ma solenne, un pensiero che tu e soltanto tu potresti essere capace di affrontare e trasformare in soluzione, una qualunque soluzione. Per diventare l’uomo che sarai, se ci riuscirai.

Te lo chiedo un’ultima volta. Io, tu, noi tutti: avremmo le palle di restare? Te lo chiedo dopo anni bui, notti insonni, lacrime (non di pianto) versate su cuscini sempre diversi e domande senza risposta a qualunque macchia di umidità sul soffitto. 

Avresti le palle di restare?

lunedì 16 settembre 2013

'A torre (ovvero la risposta irpina a Empire di Andy Warhol)

Per la prima volta mi sono lasciato andare ad un gesto d'amore per la mia città.
Perché questo, sì, è un gesto d'amore per la mia città. Chi conosce, sa.
Ne ho sempre ripudiato a morte l'ottusità, l'arretratezza morale, civile e culturale, dicendo e scrivendo di lei cose orrende perché venivano da constatazioni di puro orrore (basta guardare alcuni post di questo stesso blog risalenti a qualche anno fa). Era lei, orrenda.
Ora non è migliore, ma quest'anno sono successe, negli animi di molti di noi, cose che stanno portando a risultati incredibili e, fino a ieri, insperabili.
Persone con un coraggio enorme e due palle grosse così, anzi così, stanno mettendo veramente in atto le condizioni per una ripresa civica e culturale senza precedenti.
Forza, ragazzi.
Nessuno di noi cadrà senza almeno provare a cambiare le cose.

" 'A torre (ovvero la risposta irpina a Empire di Andy Warhol)"
https://www.youtube.com/watch?v=qd2bHoetWlk
Regia di Stefano Gallone
Da un'idea di Umberto Villano
Con la collaborazione di Domenico Di Spirito

sabato 14 settembre 2013

Rescue mission. Jovanotti, Pequeno e i finti artisti salveranno il mondo



Woodstock, 1969. «No rain» divenne un grido melodico che si poneva come obiettivo principale quello di fare in modo che qualcosa accadesse. E con quale ferrea e determinata convinzione, poi. Tra fango, acqua, sudore e sporcizia improvvisa, l’estro di centinaia di migliaia di persone non si trasformava in odio violento o filosofia risolutiva su conflitti mondiali. C’era solo l’intenzione, giustificabile o meno, condivisibile o no, di far tornare in piedi il sole. I posteri, certo, hanno comunque sentenziato, magari anche a ragione, sull’inutilità di certe soluzioni pseudosociali; se non altro, resta in piedi la memoria di una delle più grandi dimostrazioni (pur fallite, in fin dei conti) di intenzionalità, sogno e desiderio realizzabile.
Mondo, 2013. Se un’intenzione c’è, è quella di vendere merce a buon mercato, anche quando le bancarelle in questione non solo non hanno pagato il prezzo della locazione ma, per di più, pretendono di vendere riproduzioni per originali di rarità inestimabile. Deve arrivare un’eminenza del pensiero artistico-intellettuale italiano del XXI secolo come Lorenzo “Jovanotti” Cherubini (hai cinquant’anni…abbi la decenza, almeno, di toglierti quel ridicolo nomignolo da figlio di papà scapestrato) a insegnare Scienze Politiche per poi metterci in guardia da convinzioni che, evidentemente, non smettiamo, sì, di far maturare nel nostro grembo morale ma, ahinoi, sulla via sbagliata. Questo almeno è quello che sembra venir fuori da alcune dichiarazioni francamente discutibili esternate dal buon Lorenzo durante un’intervista posta in essere da Massimo Gramellini, bravo vicedirettore del quotidiano La Stampa.
«Un giorno, in una megalopoli, guardavo con orrore la favela cresciuta accanto a un quartiere ricco, ma chi era con me disse: crescere con un quartiere ricco accanto è l'unico modo in cui un ragazzo povero può pensare di cambiare la propria vita. La vera povertà è sempre povertà di visione». Prima cosa: Lorenzo caro, forse è ora di cambiare compagnia. Seconda cosa, non senza affetto: si potrebbe, allora, anche pensare che se un tizio, invece di allacciarsi la cintura di sicurezza, ne indossasse una di cartone ma disegnata bene (come ci indottrinarono alcuni artisti del raggiro non molto tempo addietro), si salva lo stesso la pelle qualora incappasse in un frontale sulla Salerno – Reggio Calabria? Per cortesia. Ma non fa niente: almeno tu hai ritmo, mica come Beethoven…e uno come Berlusconi dici che umanamente ti è simpatico…liberarsene è solo una “partita pop”. Va bene.
Cosimo Fini, poi, noto come Guè Pequeno (ah, i nomi…), un altro grande genio dell’arte italiana iperimpegnata, leader dei Club Dogo, anche lui proprio oggi, stavolta a Michele Caporosso di Rockit (che gli concede anche un bel po’ di spazio e non ne nasconde una certa comprensibilissima venerazione), ha da dire la sua su come salvare il mondo.
«Che cazzo gliene frega ad un quattordicenne di sentire una canzone che non lo rappresenta? Invece sente un testo esplicito che nel bene o nel male gli fa scattare qualcosa». Tranquillo, Cosimo caro: per molti il rap (oltre a non essere proprio nemmeno un genere musicale; anzi, oltre a non essere proprio musica) non è poi una così imponente ragione di vita. Non è che chi, crescendo, finisce per ritrovarsi la cassetta della posta piena di buste verdi pensa a scrivere o ad ascoltare ad oltranza rime tutt’altro che alla Dante Alighieri per esprimere un rancore che non riuscirebbe nemmeno a portare avanti realmente per via di certi morsi di vuoto allo stomaco. Semmai impazzisce letteralmente e fa fuori qualche povero passante più che innocente, ecco. Occhio perché poi la colpa la danno a te come “mandante morale”.
Ci sarebbe, poi, anche il dio Celentano con tutti i suoi sermoni ma, almeno per oggi, è meglio placare qui l’istinto intellettualmente omicida.
A pensarci bene, ma proprio bene bene, in fin dei conti, non possiamo neanche rigettare così tanto queste tipologie di comportamento o di pensiero (per modo di dire) più infantili dell’infantile stesso. Ed ecco un’ipotesi di motivo: questo “vecchio pazzo mondo” ha bisogno di essere salvato. Dentro, prima di tutto. Almeno per quello che è veramente possibile, tangibile, a portata di mano, meritevole di un minimo tocco risolutivo. Per sentire l’appagamento di un bisogno, si sa, occorre nutrire in sé la certezza di aver risolto quello che si pone come un problema. Se la soluzione arriva magari anche da frasi qualunquiste, sostanzialmente insensate, violentemente forse anche giuste o scarne, elementari, banali o semplici e dirette seppur ben poco costruttive, il risultato lo si ottiene ugualmente pur non ottenendo un risultato: chi vuole (o chi è portato a) sentirsi dire che in un certo modo, in un dato momento, le cose si risolveranno e andrà tutto bene di lì in avanti, percepisce una rassicurazione. Che non c’è, ma che si è messi, da se stessi, nella condizione di percepire. Quindi sta bene. Quindi è appagato. Quindi si sente salvato dentro. E intanto (complice un’arte venduta come arte ma che Arte non è) i governi si alternano, le soluzioni vere restano un terno al lotto, la propaganda sopravvive, centenaria, nelle pance della collettività ma i referendum vengono calpestati senza che nessuno batta ciglio e denigrata resta quella qualunque forma d’arte (che è Cultura, che è Pensiero, che è Comunicazione, che è Vita) che cerca veramente di salvarsi e salvare qualche maceria per conto terzi rinnovando se stessa nell’eterno tentativo di rinnovare le modalità di comunicazione capaci di fuoriuscire da precedenti linee comunicative prima rosicchiate e poi sbranate dalla ferocia della «banalissima televisione» (Pasolini, ndr; rileggetevelo un po’ tutto, che non vi fa male, anzi).
Svegliatevi un po’ tutti quanti. Quanto prima.

(da www.wakeupnews.eu)
 

Avellino, il Laceno d’Oro e il Van Sant che non ti è concesso



«Il progetto presentato dal Comune di Avellino per realizzare il festival cinematografico “Laceno d’Oro” non è stato ammesso al finanziamento da parte della Regione Campania, nell’ambito del programma operativo F.E.S.R. 2007/2013, obiettivo 1.9».


Esordisce così il comunicato ufficiale del Comune di Avellino che, lo scorso 8 agosto 2013, comunicava la fresca notizia a chiare lettere: «Nessun finanziamento regionale per il Laceno D’Oro». Facciamo ordine.
La sera dello scorso 2 gennaio 2013, la sala proiezioni dell’ex cinema Eliseo di Avellino si vide divorata dalle fiamme di un incendio, risultato poi essere doloso anche se, nella sostanza, come (troppo) spesso capita in alcune circostanze nazionali su scala generale, gli effettivi colpevoli non sono mai stati veramente identificati e puniti a norma di legge. Atti vandalici, bullismo giovanile, demenza collettiva o quanto altro non sono e non saranno mai una giustificazione.
Ad ogni modo, la città di Avellino ne ha viste talmente tante, soprattutto in questo ultimo sciagurato decennio, che reagire sembra davvero essere una conseguenza di inerzia. Malgrado iniziali e incomprensibili dimostrazioni di una certa inadeguatezza senile racchiusa in prime ordinanze così tanto interessate a mantenere il decoro urbano per tramite del divieto di portare con sé un innocuo pallone Super Santos lungo Corso Vittorio Emanuele II, la giunta costruita dal nuovo sindaco Paolo Foti non ha evitato, stando a quanto sembra, di occuparsi di ciò che, per contro, ai compari dell’ex primo cittadino Giuseppe Galasso non era passato di mente nemmeno in sogno: recuperare e quindi fare dell’ex cinema Eliseo quello che è sempre stato, ovvero la Casa del Cinema Camillo Marino (epocale e inamovibile figura culturale di un’intera provincia), nonché sede del Laceno d’Oro, storico ed importantissimo festival cinematografico di impronta neorealista che, a partire dal 1959, ha sempre ospitato e attirato l’attenzione di tutto il meridione su personalità di centrale rilievo per quanto riguarda la storia del cinema italiano (Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini che ne era anche cofondatore assieme a Cesare Zavattini…dobbiamo continuare?!).
Non è così difficile nemmeno per un bambino di due anni comprendere a fondo la magnificenza di una simile potenzialità per una città tutto sommato provinciale che tanto provinciale, a questo punto, si direbbe non sia mai stata e non è se il taglio culturale o anche solo cognitivo, in tal senso, equivale a simili e redivivi risultati. La sostanza dell’influenza della manifestazione, infatti, non ha mai smesso di germogliare soprattutto quando la città di Avellino ha ospitato e premiato alla carriera, nell’arco dell’ultimo decennio, eminenze come Ettore Scola (originario, tra l’altro, di Trevico, un paesino irpino), Gillo Pontecorvo o, addirittura, il regista inglese Ken Loach (sì, proprio quello di Terra e libertà, La canzone di Carla, In questo mondo libero, eccetera, eccetera) o i fratelli Dardenne ancora prima della notorietà internazionale, Marco Bellocchio e i fratelli Taviani. La ferrea volontà per quanto concerne il recupero delle premiazioni e della possibilità di tornare, finalmente, a svolgere questa fondamentale kermesse, aveva puntato il suo sguardo sul desiderio di portare in terra irpina, di qui a qualche mese, un certo Gus Van Sant. Per chi non lo sapesse, Van Sant è il regista di capolavori assoluti (e premiati con Oscar e Palme d’Oro) sia mainstream come, su tutti, Will Hunting – Genio ribelle, sia di taglio strepitosamente sperimentale e linguisticamente innovatore come Gerry, Elephant, Last days e Paranoid park.
E invece no: la cosa, evidentemente, non meritava abbastanza considerazione tanto da non raggiungere nemmeno l’ultimo posto ammissibile nella graduatoria dei finanziamenti regionali (30,46 punti contro il minimo di 31,41; il massimo è 50), subito dietro all’interesse della città di Amalfi nell’ottenere sostegni economici per non si capisce bene quale premio a non si sa meglio quale personalità di grande rilievo.
Le capacità, la voglia, l’esigenza, anzi la vera e propria urgenza (!) di svegliare definitivamente intere generazioni da un sonno (non soltanto) irpino ai limiti del definitivo suicidio, pone più che adeguatamente quelle carte in tavola che ci sono eccome, ci sono sempre state a testimonianza che l’essenza culturalmente e spiritualmente mortuaria dell’intera Avellino (in casi del genere) non è mai dipesa unicamente da una buona parte delle persone (specialmente appartenenti alle nuove generazioni) che la abitano: basta osservare da vicino il gran lavoro che l’assessore alla cultura Nunzio Cignarella, con il coadiuvante di Sergio Genovese e delle forze giovanili capitanate dall’ottima Anna Coluccino e dall’associazione EleMenti per capire con cosa si ha veramente a che fare. Tutta energia vilipesa, denigrata, mandata al macero così, senza reale ed effettiva considerazione di sorta che abbia un minimo di umano.
Ma il problema, quasi certamente, sta in una (non)concezione nazionale del fattore artistico relegato a vomitevole hobby, mero passatempo per chi vuole coltivare una pur stupida e scanzonata passione al triste rientro dal suo lavoro di centralinista o magazziniere più che precario. Tutto quello che abbiamo sin qui elencato (che è solo una decima parte dell’intera consistenza) probabilmente non basta a convincere i signori della corte. Si è colpevoli di eccesso di chissà quale presunto zelo narcisista, non innocenti di obbligo verso manutenzioni culturali.
Dispiace davvero, a questo punto, non essere riusciti a maturare l’intenzione di affibbiare una targa a, mettiamo, nostro signore Gesù Cristo, San Pietro, Mosè, Giobbe o una qualunque altra paradisiaca figura di una certa rilevanza mondiale. O magari una bella medaglia di carta igienica (che sia soffice a norma di legge) a una Emma Marrone, Alessandra Amoroso o un Marco Mengoni pescato così, a caso, nel paese delle  meraviglie in cui un film di Vanzina o con Brignano protagonista ottiene il riconoscimento di Interesse Culturale Nazionale con apposito finanziamento pubblico o premi d’incasso.
Sono problematiche, queste, su cui si discute da anni e anni su scala nazionale e lo sappiamo fin troppo bene. Dispiace, però, anzi delude molto più che amaramente constatare che, mai come in casi del genere, un certo decentramento amministrativo-politico-anticulturale provoca la devastazione di un motore Ferrari installato su di una Cinquecento. Il Comune di Avellino lo fa sapere subito: «L’amministrazione comunale ha creduto e crede fortemente nel progetto presentato e non mancherà di compiere passi formali per chiedere ragione dell’esclusione».
Se ne è ben consapevoli, insomma. E si spera in qualcosa (chissà cosa, poi) ma, intanto, si è stati costretti a perdere altro preziosissimo tempo. Ancora una volta. Prassi tutta rivolta a lacerare il tricolore: se ci togli il rosso, in effetti, non cambia poi così tanto. 

(da www.wakeupnews.eu)

mercoledì 24 luglio 2013

La Bellezza dietro un velo. De “L’amore incompreso” di Riccardo Di Gerlando



Essere felici. Punto e basta.
Hai detto niente…
“Felicità” fa ormai parte di tutta quella schiera in fila indiana capitanata da “Passione”, “Arte”, “Sensibilità”, “Verità”, “Vita”, eccetera eccetera. Tutta quella fitta rete di interconnessioni verbali troppo spesso stuprate a sangue per riempirsi la bocca di sacri neologismi buoni solo a nascondere la propria incompetente inconsistenza terrena. Facile è dire “no, tanto a me non importa: qualunque cosa succeda io sarò forte, sarò superiore, attraverserò e scavalcherò me stesso pur restando me stesso; presterò in eterno fede ai miei precetti interiori, ai miei valori più profondi e inamovibili finché morte non mi distacchi da quest’aria, questa terra, quest’acqua e questo fuoco”. D’accordo, come darti torto. Però come la mettiamo se, di punto in bianco, un po’ alla Kafka, ti ritrovi ad essere un mutante Gregor Samsa improvvisamente impossibilitato a continuare a vivere la sua semplice e onesta vita per colpe non sue e per cause che nemmeno una qualunque tipologia di fato saprebbe adagiare ordinatamente in tavola?
Ordunque sappi che, al contrario, c’è chi sogna di splendere di una luce visibile fin da altri pianeti, accettando, se proprio così barbaramente necessario, anche di distaccarsi dalle proprie stesse sembianze pur di urlarti in faccia “guarda che esisto anch’io!”. Distaccarsi dalla sua naturalezza pur di entrare nel campo visivo delle tue ossessioni antropologiche. Ti sembra poco? E Perché mai?
Proprio questa sera Riccardo Di Gerlando (abilissimo scrittore e regista con il quale, assieme al fratello gemello Marco e alla troupe della Sanremo Cinema, ho avuto il piacere di lavorare per C’era una volta il cinema qualche anno fa) mi ha contattato salutandomi e sottoponendo alla mia sempre volenterosa attenzione (soprattutto nei suoi / loro confronti) la sua nuova produzione, vale a dire il cortometraggio L’amore incompreso. Premessa: io credo che il discorso vada anche molto oltre il concetto di disabilità fisica e, di riflesso, approdi alla deriva culturale di un paese fascista, ignorante e razzista come indiscutibilmente è (e qualcosa che vedo qui attorno, in questa enorme città, mi lascia pensare che sempre sarà) il nostro. Riccardo, per come lo conosco io (cioè soprattutto in termini di reciproco scambio di idee, opinioni e sensazioni da narrare) è sicuramente una persona estremamente sensibile che ha fatto del supporto umano un fulcro non solo di fondamentale sostegno civile ma anche di importante traduzione visivo-letteraria, assolutamente non di poco conto. È anche per questo che vorrei che a certe persone venga data la possibilità decisiva. Ma non divaghiamo, altrimenti rischiamo di perderci per davvero.
Il mondo è così totalmente e meravigliosamente
privo di senso che riuscire ad essere felici
non è fortuna: è arte.
Questa è la frase attribuita a René Magritte con la quale principia un quarto d’ora di simile elevazione. E non è nemmeno un caso se ce n’è davvero tanto, di Magritte, lungo tutto questo percorso non privo di ostacoli e irte salite, non meno denso di scelte da compiere, successioni di non-strutture umane da comprendere finché è possibile, finché è concesso. Dal prestito di un Falso specchio in cui una “Colombe” bianca, in volo libero, sostituisce il sole nero di un’iride, al Mistero indefinibile che attanaglia le esistenze di chi davvero vuole (e sa, malgrado i tempi avidi e infausti) tentare di offrire la propria ragione in sposa al Terapeuta occhio interiore che altro non vuole, anche in chi è convinto o non sa o non vuol sapere di sapere, mostrare a se stesso ciò che in verità tangibile non è, almeno non come in verità reale, essenziale, principale, primordiale, unica.
La poesia dei sensi è necessaria, anzi fondante per una adeguata comprensione dell’insieme onirico e trascendentale eppure mai così vicino alla realtà delle cose perché, in fin dei conti, è realtà esso stesso. Se non accetti di spegnere le luci tanto della tua camera quanto, specialmente, del tuo mondo interiore illuminato a festa anche in tempi di carestia sensibile e morale, allora fatti un favore e metti tranquillamente da parte questa pagina e quest’opera. Sarà meglio per te, vedrai che non ti sentirai ferito nel tuo costante andirivieni di costruzioni oggettive.
Ma è giusto costringere il “diverso” ad immaginare un nuovo sé in funzione di un’accettazione personale direzionata da dinamiche esterne ed esteriori non scritte, mai approvate né tantomeno verificabili e punibili a norma di legge? Forse, anzi quasi per certo, una buona fetta di felicità continuerà per sempre a derivare dall’eternità inconsciamente e inammissibilmente automatica del confronto con ciò che è “ammesso”, “concesso” e quindi verificabilmente passabile come modello e principio estetico del comune vivere in pace.
Tocca a qualcuno di noi, prima o poi (prima della definitiva estinzione anche cerebrale), aiutare altri come o per noi a gettare via il bastone della vecchiaia spirituale nella partita a scacchi contro noi stessi e riavvolgere il sudicio e anonimo velo che ricopre e asfissia la Bellezza, quella vera, quella pura, quella tanto offesa al rumor di semplici e (il più delle volte) inconsapevoli risate partorite e presto abbandonate in una sala buia o affogate in una pizza e una birra tra quattro mura affollate di riproducibili automi spioventi, unico reale motivo di derisione per qualcosa che, in tutto e per tutto, non vende, non incassa, non fa audience se non come spettacolo circense in prima serata, non ha i tempi giusti, non risponde alle aspettative del consumatore.
Un solo concetto regna sovrano ma urge estirpazione e salvifico reinnesto: la Bellezza, la Verità, la Felicità, la Passione, l’Arte…fanno Paura. 

sabato 22 giugno 2013

VIDEO - Crowdfunding, croci e delizie nell'epoca dell'interconnessione

Crowdfunding. Questa manna dal cielo.

Sì, per molti lo è, anzi rappresenta quasi l'unica via di salvaguardia del proprio particolare desiderio di espressione, se consideriamo la vicenda dal punto di vista artistico. Già, l'arte: questo grande ma pidocchioso hobby delegittimato, smembrato e vomitato da qualunque fattore industriale. Per la serie: "Che fai, tu? Scrivi? Suoni? Fai il regista? E che ti pago a fare, tanto è una passione. No? Lo fai per passione. Mica ci si campa, con queste cose?". No, assolutamente. Per carità.

Il problema è che, però, se ne parla talmente tanto da legittimare davvero qualunque stronzata come, ad esempio, il disco di una tizia che mi è stato proposto in comunicato stampa, di cui non ricordo il nome e del cui sconfinato talento, francamente, non ho mai sentito nemmeno ruttare una bolla di acidità di stomaco.

E allora la domanda sorge spontanea: quali reali pregi ed effettivi difetti compaiono davvero all'orizzonte?

La verità emersa da questo reportage, contrariamente a quanto sostiene ormai chiunque, è una e una sola e, per di più, va anche in netto contrasto con tutto l'entusiasmo diffuso su scala planetaria.

Se preferite, ecco il link diretto a Youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=Sb7zZJy3YGM&feature=youtu.be

A tutti voi, dunque, buon divertimento.

p.s: io e l'ottima associata Mariateresa Scionti, autrice dei testi e delle interviste, ringraziamo infinitamente Gianluca Colitta e Federico Guglielmi per l'inestimabile generosità, disponibilità e interesse iniettati nell'aiutarci ad affrontare un discorso di così vasta portata.



mercoledì 1 maggio 2013

Cacciatore di tempi che non sono più



“Effetto Notte”. François Truffaut. 1973.

Che odore avrà, quella pellicola? Sì, esatto, proprio quella che quell’indaffarato ragazzo ha utilizzato, lì in quella isolata cabina, un paio di ore fa, trafiggendo la croce di Malta ma accarezzandola con docile destrezza, quasi dolcezza, consapevole di un valore pressoché superiore, quantomeno venerabile se non sacro in uno spazio e in un tempo altro, sia dalle normali cronologie umane che da sé, dal proprio stesso farsi (come dire) assenza, ingiustificabile mancanza di scopi, obiettivi, lungimiranze a caso in un’epoca di atroce e pseudo-dissidente buio interiore.
Mai come in quella sala, in quei precisi attimi di contemplazione atemporale, realmente onirica seppur ben ancorata a quel fattore di realtà sostanziale mai troppo fine alle circostanze, mi sono sentito triste, affranto e deluso, profondamente deluso, dalla consapevolezza della costrizione di dover rivolgere, di nuovo, questi stanchi occhi ad un esterno senza più forma né valore, senza più colore né sapore, senza più desiderio alcuno che non fosse quello di forzare un sorriso a scopi di futile e punibile (ah, se punibile) propaganda meramente non-esistenzialista.
1973: altra epoca, altro spirito, altre intenzioni. Altre possibilità reali, tangibili, per quanto costernate da difficoltà politico-sociali oggettive, consistenti pur in ambienti e circostanze, però, non del tutto limitate.
2013: sfascio, disonore, complessità ingiustificabilmente esistente. A quale scopo? Perché? Per quale motivo? Epoca di velocità, immediatezze e ipermediazioni secolarmente sospirate e finalmente raggiunte col solo battere delle ciglia. Epoca, però, di cattivo, pessimo, sciagurato, infame, lecchinoso utilizzo di risorse fenomenali, sovrumane, proprio per questo tenute alla larga, costantemente al bando dei limiti stessi del proprio vigliacco essere al mondo.
Quanto era semplice anche solo chiedere un lavoro? Meglio del meglio se in termini creativi, in ambiti di produzione artistica non importa se più o meno attinente a metodiche di divulgazione oggettiva di sostanza corposamente valida per situazioni morali dignitosamente elevate.
Proprio ora, in questo preciso istante, proprio mentre quell’indaffarato ragazzo, lì in quella isolata cabina, ha dovuto, per forza di cose, riaccendere le luci in questa sala sempre troppo piena di chi davvero, credete, non merita un usufrutto gratuito di tanta spontaneità, delicatezza, suprema scelta affettiva con relativa dichiarazione audiovisiva di eterni intenti, penso inevitabilmente a tutte le volte che le mie pupille non riuscivano (e ancora non riescono, sia chiaro) a distendersi al buio delle anticamere delle notti più dense di inquietudine e spietata incertezza lacerante. Sarà questa la strada che davvero potrò e saprò percorrere? E se invece…? E se poi…? Vuoi vedere che…? Saprò mai…? Forse dovrei…Chissà…
Naturalmente, io non c’ero. Quindi, forse, non avrei nemmeno il diritto di esprimermi in questa direzione, se proprio vogliamo andare a controllare nel profondo. Ma, credete, meglio non addentrarsi troppo in là nei meandri di un’anima come la mia, così complessa e, al contempo, paradossalmente e laicamente esigente soluzioni condotte agonisticamente per mano a tratti come in un gioco di andirivieni emotivi giusti, leciti, nel loro stesso divenire patriarcali nei confronti del proprio distinguersi dal contesto e costituenti quel necessario patrimonio universale che qualsivoglia essere umano dovrebbe conservare (e portare orgogliosamente avanti, sempre più avanti, se non oltre) dentro di sé con la più gelosa delle affermazioni.
No. Oggi, ora, non è così. Non è e basta. Il rammarico più profondo è quello della consapevolezza, magari precoce ma comunque considerevolmente esistente, di esser nato nell’epoca sbagliata.
Com’era semplice sedersi ad un tavolino, in una stanza d’albergo, accendere una sigaretta, ravvivare quella del proprio collega, aprire le pagine di quel copione e passare la notte intera a studiare il modo migliore per risolvere il rapporto tra due personaggi protagonisti. No. Ora non è affatto così. Non è affatto. Ora non è concesso un simile divagare, proprio per l’essere vigliaccamente considerato, appunto, un divagare. Solo per arrivare a poter avere la possibilità di esprimere le proprie idee si deve, per forza di cose (ma perché? Perché?! Mi sia spiegato una volta per tutte: perché?!), continuamente, inarrestabilmente, sostenere e superare a pieni voti quell’ingiusto e arduo esame attitudinale. Chi sei? Che vuoi? Da dove sei spuntato mai? Perché mi stai disturbando a tal punto? Perché mai dovrei ascoltarti? Perché mai dovrei gettare al vento o scaricare nel cesso il mio prezioso tempo per leggere quello che hai da raccontare? Preparami un trattamento dei tuoi pensieri, se proprio vuoi.
Forse perché non sei eterno, sarebbe una possibile e magari anche giusta risposta. Forse perché chi sedeva prima di te, su quella immeritata poltrona, aveva la speranza di fare del suo creato qualcosa di avvicendabile, pratica che (tu lo voglia o no) risulterebbe ancora adesso, mentre quell’indaffarato ragazzo, lì in quella isolata cabina, manda a nanna celluloide e metallo, assolutissimamente necessaria alla sopravvivenza di tutti quelli che, proprio come te, ora che quell’indaffarato ragazzo aspetta che anche le mie membra accettino di tornare a far parte di una realtà ormai solidamente inaccettata in quanto inaccettabile, vitale al sostentamento di ciò che tu reputi come il tuo lavoro, ma che lavoro non è, stando a quello che, invece, tanto fermamente sostieni per giustificare l’assenza di un qualunque tuo libro paga.
Ebbene, proprio mentre quell’indaffarato ragazzo, da quella isolata cabina, cerca di allertarmi sollecitandomi ad un chissà quanto legittimo rientro tra mura ormai non così tanto fraterne, io maledico mortalmente te e tuoi falsi simili, perché quello che quell’indaffarato ragazzo, da quella isolata cabina, lassù, ha proiettato ai cuori e alle anime di un’intera vita trascorsa nel desiderio non di realizzazione (no), bensì di lecita e costituzionale espressione, altro non è se non ciò che mi spetta di diritto, per il solo dato di essere, nel vero senso (più ma anche meno filosofico) del verbo.
L’Arte e la Scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. Libere. Non liberamente usufruibili a proprio piacimento o interesse tutt’altro che collettivo. Libere, non “hobby”. Libere, quindi doverosamente sostenibili, come una qualunque attività legittimamente retribuibile. Ah, già, perdonami: oggi, ora, proprio mentre quell’indaffarato ragazzo ha assunto lo status di rassegnata decisione, scegliendo (praticamente costretto) di lasciarmi qui a marcire volontariamente sulla pelle sintetica di questa pur comoda poltrona, non accetti più un simile discorso perché non ne vale la pena, tanto c’è altro da fare, altre cose sono le più importanti. Già, vero. È più importante rassicurare un sé diluito, liquido e inesistente (eppure così influente, caspita!) che assicurare un bisogno netto e reale perché davvero tangibile (ah, eccome se è tangibile…e quanto è tangibile…fanno così male le sue percosse…ma tu neanche le senti, da così lontano).
Io non sono niente, non sarò mai niente, dice il poeta. Non posso voler essere niente perché non mi è concesso: non esiste, per te, che comunque gestisci il mio mancato pane, lecito motivo perché io continui a pretendere ciò che mi spetta per diritto di nascita intellettuale.
Comunque sia, non saprò fare altro, fino all’estremo crepuscolo, che detenere in me, sempre e solo in me, unicamente in me, disperatamente in me, tutti i sogni del mondo, come suggerisce ancora quel poeta e anche quell’altro, mai così fratelli di notti mai così inutili, fredde ma eternamente intense del mio ardere contro tutto, nonostante tutto.
E tu prosegui pure nei tuoi sogni d’oro, sceicco della vera fame. Sogni d’oro a te, convinto cacciatore di tempi che non sono più.