lunedì 16 settembre 2013

'A torre (ovvero la risposta irpina a Empire di Andy Warhol)

Per la prima volta mi sono lasciato andare ad un gesto d'amore per la mia città.
Perché questo, sì, è un gesto d'amore per la mia città. Chi conosce, sa.
Ne ho sempre ripudiato a morte l'ottusità, l'arretratezza morale, civile e culturale, dicendo e scrivendo di lei cose orrende perché venivano da constatazioni di puro orrore (basta guardare alcuni post di questo stesso blog risalenti a qualche anno fa). Era lei, orrenda.
Ora non è migliore, ma quest'anno sono successe, negli animi di molti di noi, cose che stanno portando a risultati incredibili e, fino a ieri, insperabili.
Persone con un coraggio enorme e due palle grosse così, anzi così, stanno mettendo veramente in atto le condizioni per una ripresa civica e culturale senza precedenti.
Forza, ragazzi.
Nessuno di noi cadrà senza almeno provare a cambiare le cose.

" 'A torre (ovvero la risposta irpina a Empire di Andy Warhol)"
https://www.youtube.com/watch?v=qd2bHoetWlk
Regia di Stefano Gallone
Da un'idea di Umberto Villano
Con la collaborazione di Domenico Di Spirito

sabato 14 settembre 2013

Rescue mission. Jovanotti, Pequeno e i finti artisti salveranno il mondo



Woodstock, 1969. «No rain» divenne un grido melodico che si poneva come obiettivo principale quello di fare in modo che qualcosa accadesse. E con quale ferrea e determinata convinzione, poi. Tra fango, acqua, sudore e sporcizia improvvisa, l’estro di centinaia di migliaia di persone non si trasformava in odio violento o filosofia risolutiva su conflitti mondiali. C’era solo l’intenzione, giustificabile o meno, condivisibile o no, di far tornare in piedi il sole. I posteri, certo, hanno comunque sentenziato, magari anche a ragione, sull’inutilità di certe soluzioni pseudosociali; se non altro, resta in piedi la memoria di una delle più grandi dimostrazioni (pur fallite, in fin dei conti) di intenzionalità, sogno e desiderio realizzabile.
Mondo, 2013. Se un’intenzione c’è, è quella di vendere merce a buon mercato, anche quando le bancarelle in questione non solo non hanno pagato il prezzo della locazione ma, per di più, pretendono di vendere riproduzioni per originali di rarità inestimabile. Deve arrivare un’eminenza del pensiero artistico-intellettuale italiano del XXI secolo come Lorenzo “Jovanotti” Cherubini (hai cinquant’anni…abbi la decenza, almeno, di toglierti quel ridicolo nomignolo da figlio di papà scapestrato) a insegnare Scienze Politiche per poi metterci in guardia da convinzioni che, evidentemente, non smettiamo, sì, di far maturare nel nostro grembo morale ma, ahinoi, sulla via sbagliata. Questo almeno è quello che sembra venir fuori da alcune dichiarazioni francamente discutibili esternate dal buon Lorenzo durante un’intervista posta in essere da Massimo Gramellini, bravo vicedirettore del quotidiano La Stampa.
«Un giorno, in una megalopoli, guardavo con orrore la favela cresciuta accanto a un quartiere ricco, ma chi era con me disse: crescere con un quartiere ricco accanto è l'unico modo in cui un ragazzo povero può pensare di cambiare la propria vita. La vera povertà è sempre povertà di visione». Prima cosa: Lorenzo caro, forse è ora di cambiare compagnia. Seconda cosa, non senza affetto: si potrebbe, allora, anche pensare che se un tizio, invece di allacciarsi la cintura di sicurezza, ne indossasse una di cartone ma disegnata bene (come ci indottrinarono alcuni artisti del raggiro non molto tempo addietro), si salva lo stesso la pelle qualora incappasse in un frontale sulla Salerno – Reggio Calabria? Per cortesia. Ma non fa niente: almeno tu hai ritmo, mica come Beethoven…e uno come Berlusconi dici che umanamente ti è simpatico…liberarsene è solo una “partita pop”. Va bene.
Cosimo Fini, poi, noto come Guè Pequeno (ah, i nomi…), un altro grande genio dell’arte italiana iperimpegnata, leader dei Club Dogo, anche lui proprio oggi, stavolta a Michele Caporosso di Rockit (che gli concede anche un bel po’ di spazio e non ne nasconde una certa comprensibilissima venerazione), ha da dire la sua su come salvare il mondo.
«Che cazzo gliene frega ad un quattordicenne di sentire una canzone che non lo rappresenta? Invece sente un testo esplicito che nel bene o nel male gli fa scattare qualcosa». Tranquillo, Cosimo caro: per molti il rap (oltre a non essere proprio nemmeno un genere musicale; anzi, oltre a non essere proprio musica) non è poi una così imponente ragione di vita. Non è che chi, crescendo, finisce per ritrovarsi la cassetta della posta piena di buste verdi pensa a scrivere o ad ascoltare ad oltranza rime tutt’altro che alla Dante Alighieri per esprimere un rancore che non riuscirebbe nemmeno a portare avanti realmente per via di certi morsi di vuoto allo stomaco. Semmai impazzisce letteralmente e fa fuori qualche povero passante più che innocente, ecco. Occhio perché poi la colpa la danno a te come “mandante morale”.
Ci sarebbe, poi, anche il dio Celentano con tutti i suoi sermoni ma, almeno per oggi, è meglio placare qui l’istinto intellettualmente omicida.
A pensarci bene, ma proprio bene bene, in fin dei conti, non possiamo neanche rigettare così tanto queste tipologie di comportamento o di pensiero (per modo di dire) più infantili dell’infantile stesso. Ed ecco un’ipotesi di motivo: questo “vecchio pazzo mondo” ha bisogno di essere salvato. Dentro, prima di tutto. Almeno per quello che è veramente possibile, tangibile, a portata di mano, meritevole di un minimo tocco risolutivo. Per sentire l’appagamento di un bisogno, si sa, occorre nutrire in sé la certezza di aver risolto quello che si pone come un problema. Se la soluzione arriva magari anche da frasi qualunquiste, sostanzialmente insensate, violentemente forse anche giuste o scarne, elementari, banali o semplici e dirette seppur ben poco costruttive, il risultato lo si ottiene ugualmente pur non ottenendo un risultato: chi vuole (o chi è portato a) sentirsi dire che in un certo modo, in un dato momento, le cose si risolveranno e andrà tutto bene di lì in avanti, percepisce una rassicurazione. Che non c’è, ma che si è messi, da se stessi, nella condizione di percepire. Quindi sta bene. Quindi è appagato. Quindi si sente salvato dentro. E intanto (complice un’arte venduta come arte ma che Arte non è) i governi si alternano, le soluzioni vere restano un terno al lotto, la propaganda sopravvive, centenaria, nelle pance della collettività ma i referendum vengono calpestati senza che nessuno batta ciglio e denigrata resta quella qualunque forma d’arte (che è Cultura, che è Pensiero, che è Comunicazione, che è Vita) che cerca veramente di salvarsi e salvare qualche maceria per conto terzi rinnovando se stessa nell’eterno tentativo di rinnovare le modalità di comunicazione capaci di fuoriuscire da precedenti linee comunicative prima rosicchiate e poi sbranate dalla ferocia della «banalissima televisione» (Pasolini, ndr; rileggetevelo un po’ tutto, che non vi fa male, anzi).
Svegliatevi un po’ tutti quanti. Quanto prima.

(da www.wakeupnews.eu)
 

Avellino, il Laceno d’Oro e il Van Sant che non ti è concesso



«Il progetto presentato dal Comune di Avellino per realizzare il festival cinematografico “Laceno d’Oro” non è stato ammesso al finanziamento da parte della Regione Campania, nell’ambito del programma operativo F.E.S.R. 2007/2013, obiettivo 1.9».


Esordisce così il comunicato ufficiale del Comune di Avellino che, lo scorso 8 agosto 2013, comunicava la fresca notizia a chiare lettere: «Nessun finanziamento regionale per il Laceno D’Oro». Facciamo ordine.
La sera dello scorso 2 gennaio 2013, la sala proiezioni dell’ex cinema Eliseo di Avellino si vide divorata dalle fiamme di un incendio, risultato poi essere doloso anche se, nella sostanza, come (troppo) spesso capita in alcune circostanze nazionali su scala generale, gli effettivi colpevoli non sono mai stati veramente identificati e puniti a norma di legge. Atti vandalici, bullismo giovanile, demenza collettiva o quanto altro non sono e non saranno mai una giustificazione.
Ad ogni modo, la città di Avellino ne ha viste talmente tante, soprattutto in questo ultimo sciagurato decennio, che reagire sembra davvero essere una conseguenza di inerzia. Malgrado iniziali e incomprensibili dimostrazioni di una certa inadeguatezza senile racchiusa in prime ordinanze così tanto interessate a mantenere il decoro urbano per tramite del divieto di portare con sé un innocuo pallone Super Santos lungo Corso Vittorio Emanuele II, la giunta costruita dal nuovo sindaco Paolo Foti non ha evitato, stando a quanto sembra, di occuparsi di ciò che, per contro, ai compari dell’ex primo cittadino Giuseppe Galasso non era passato di mente nemmeno in sogno: recuperare e quindi fare dell’ex cinema Eliseo quello che è sempre stato, ovvero la Casa del Cinema Camillo Marino (epocale e inamovibile figura culturale di un’intera provincia), nonché sede del Laceno d’Oro, storico ed importantissimo festival cinematografico di impronta neorealista che, a partire dal 1959, ha sempre ospitato e attirato l’attenzione di tutto il meridione su personalità di centrale rilievo per quanto riguarda la storia del cinema italiano (Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini che ne era anche cofondatore assieme a Cesare Zavattini…dobbiamo continuare?!).
Non è così difficile nemmeno per un bambino di due anni comprendere a fondo la magnificenza di una simile potenzialità per una città tutto sommato provinciale che tanto provinciale, a questo punto, si direbbe non sia mai stata e non è se il taglio culturale o anche solo cognitivo, in tal senso, equivale a simili e redivivi risultati. La sostanza dell’influenza della manifestazione, infatti, non ha mai smesso di germogliare soprattutto quando la città di Avellino ha ospitato e premiato alla carriera, nell’arco dell’ultimo decennio, eminenze come Ettore Scola (originario, tra l’altro, di Trevico, un paesino irpino), Gillo Pontecorvo o, addirittura, il regista inglese Ken Loach (sì, proprio quello di Terra e libertà, La canzone di Carla, In questo mondo libero, eccetera, eccetera) o i fratelli Dardenne ancora prima della notorietà internazionale, Marco Bellocchio e i fratelli Taviani. La ferrea volontà per quanto concerne il recupero delle premiazioni e della possibilità di tornare, finalmente, a svolgere questa fondamentale kermesse, aveva puntato il suo sguardo sul desiderio di portare in terra irpina, di qui a qualche mese, un certo Gus Van Sant. Per chi non lo sapesse, Van Sant è il regista di capolavori assoluti (e premiati con Oscar e Palme d’Oro) sia mainstream come, su tutti, Will Hunting – Genio ribelle, sia di taglio strepitosamente sperimentale e linguisticamente innovatore come Gerry, Elephant, Last days e Paranoid park.
E invece no: la cosa, evidentemente, non meritava abbastanza considerazione tanto da non raggiungere nemmeno l’ultimo posto ammissibile nella graduatoria dei finanziamenti regionali (30,46 punti contro il minimo di 31,41; il massimo è 50), subito dietro all’interesse della città di Amalfi nell’ottenere sostegni economici per non si capisce bene quale premio a non si sa meglio quale personalità di grande rilievo.
Le capacità, la voglia, l’esigenza, anzi la vera e propria urgenza (!) di svegliare definitivamente intere generazioni da un sonno (non soltanto) irpino ai limiti del definitivo suicidio, pone più che adeguatamente quelle carte in tavola che ci sono eccome, ci sono sempre state a testimonianza che l’essenza culturalmente e spiritualmente mortuaria dell’intera Avellino (in casi del genere) non è mai dipesa unicamente da una buona parte delle persone (specialmente appartenenti alle nuove generazioni) che la abitano: basta osservare da vicino il gran lavoro che l’assessore alla cultura Nunzio Cignarella, con il coadiuvante di Sergio Genovese e delle forze giovanili capitanate dall’ottima Anna Coluccino e dall’associazione EleMenti per capire con cosa si ha veramente a che fare. Tutta energia vilipesa, denigrata, mandata al macero così, senza reale ed effettiva considerazione di sorta che abbia un minimo di umano.
Ma il problema, quasi certamente, sta in una (non)concezione nazionale del fattore artistico relegato a vomitevole hobby, mero passatempo per chi vuole coltivare una pur stupida e scanzonata passione al triste rientro dal suo lavoro di centralinista o magazziniere più che precario. Tutto quello che abbiamo sin qui elencato (che è solo una decima parte dell’intera consistenza) probabilmente non basta a convincere i signori della corte. Si è colpevoli di eccesso di chissà quale presunto zelo narcisista, non innocenti di obbligo verso manutenzioni culturali.
Dispiace davvero, a questo punto, non essere riusciti a maturare l’intenzione di affibbiare una targa a, mettiamo, nostro signore Gesù Cristo, San Pietro, Mosè, Giobbe o una qualunque altra paradisiaca figura di una certa rilevanza mondiale. O magari una bella medaglia di carta igienica (che sia soffice a norma di legge) a una Emma Marrone, Alessandra Amoroso o un Marco Mengoni pescato così, a caso, nel paese delle  meraviglie in cui un film di Vanzina o con Brignano protagonista ottiene il riconoscimento di Interesse Culturale Nazionale con apposito finanziamento pubblico o premi d’incasso.
Sono problematiche, queste, su cui si discute da anni e anni su scala nazionale e lo sappiamo fin troppo bene. Dispiace, però, anzi delude molto più che amaramente constatare che, mai come in casi del genere, un certo decentramento amministrativo-politico-anticulturale provoca la devastazione di un motore Ferrari installato su di una Cinquecento. Il Comune di Avellino lo fa sapere subito: «L’amministrazione comunale ha creduto e crede fortemente nel progetto presentato e non mancherà di compiere passi formali per chiedere ragione dell’esclusione».
Se ne è ben consapevoli, insomma. E si spera in qualcosa (chissà cosa, poi) ma, intanto, si è stati costretti a perdere altro preziosissimo tempo. Ancora una volta. Prassi tutta rivolta a lacerare il tricolore: se ci togli il rosso, in effetti, non cambia poi così tanto. 

(da www.wakeupnews.eu)