lunedì 11 ottobre 2010

Post noir: tra stile e necessità pt 3/3

3. Post noir in letteratura. Raul Montanari.

A partire dalla letteratura, è Raul Montanari (Bergamo, 19 gennaio 1959) a coniare l'etichetta e la scintilla del senso globale riferito alla terminologia post noir. Pur essendo, la sua, una considerazione in sostanza autoreferenziale, pochi anni or sono lo scrittore lombardo ha definito con simile dicitura il suo operato più recente, nonostante sia possibile trovare punti cardinali anche in precedenza, come vedremo a breve.

È tra le pagine del romanzo di Montanari che il discorso stilistico perde in egoismo artistico per assumere, gradualmente, un'importanza decisiva e preponderante a favore di cosa si vuole esprimere prima ancora del come lo si vuole espletare. Rimangono entrambi, tuttavia, elementi caratterizzanti e complementari per il conferimento di quel pathos necessario all'espressione di una complessa e intricata interiorità per mezzo di periodi meno articolati ma nettamente più consoni alla motivazione che li ha generati.

In un originario scambio telematico di posta elettronica tra Montanari, Gianni Biondillo e Grazia Verasani emerge, a partire da Montanari stesso, l'embrione dell'intero discorso da noi portato avanti con convinzione.


Sappiamo cos'è il post rock: la musica che fanno

gruppi come i Sigur Ros ma sotto molti aspetti

anche i Radiohead di Kid A e altri. Partono dal rock

e ne fanno esplodere la struttura. Viene meno il

martellamento ritmico, tutto rallenta e si amplifica-

no le visioni. In trasparenza, a ben guardare o

ascoltare, percepisci ancora lo scheletro del rock,

la sua energia; ma gli accenti e il pathos sono

spostati su altro.


"Altro": questioni molto più sottili e delicate del solo fare musica, stando all'esempio portato avanti dal discorso dello scrittore.


Secondo me in questo momento ci sono scrittori

che, partiti dal noir, stanno esplorando un'altra

area narrativa (dando uno spazio molto più ampio

ai personaggi e alla loro introspezione. (...) Io sono

sicuro di fare post noir almeno dall' Esistenza di

Dio; (...) in realtà credo che valga anche per titoli

come Che cosa hai fatto e La perfezione. Sono

libri in cui i procedimenti narrativi e l'atmosfera

del noir sono applicati a storie che non hanno al

loro centro delitti, indagini, detective e criminali.

(...) E anche il linguaggio ne risente: diventa più

elaborato e ricco, pur rimanendo agile e funzionale

alla vicenda narrata.


In effetti è anche con L'esistenza di Dio (Baldini Castoldi Dalai, 2006) che Montanari sembra prediligere (prendendo il delitto come qualcosa di aleggiante nell'aria della narrazione ma quasi mai preponderante allo sviluppo della vicenda se non come base coniugata al tempo passato) un certo tipo di narrazione legato più all'espressione autonoma del protagonista che ad un discorso esplicativo in terza persona. E in realtà l'esperimento appare perfettamente riuscito se si eleva il discorso interiore del soggetto a fonte principale della narrazione per espressione di pensieri, informazioni soggettive, sensazioni ed impressioni pur legate ad eventi particolari appartenenti al discorso del racconto. È una preponderante narrazione a focalizzazione interna, allora, (prestando fede a Genette) a rendersi artefice della riuscita interiorizzazione delle situazioni per tramite di un veicolo primordiale di espressione quale la parola stessa, con l'attenuante di rendersi, al contempo, causa ed effetto di una vera e propria identificazione emotiva, condividendo o respingendo la quale il lettore può scegliere di aderire o distaccarsi dal minuzioso vestito che la particolare articolazione del periodo cuce sulla sua pelle da esperimento. Se chi legge sa tanto quanto chi compie le azioni tra le pagine di un romanzo di Montanari, allora il processo di equiparazione d'animo tra persone reali in carne ed ossa e soggetti astratti eppure mai tanto reali, pur nella loro trascendente crisi di introspezione, viene promosso a tranfert di ogni elemento tanto aleatorio quanto costituente la base portante per ogni processo di immedesimazione.

Contrariamente a quanto afferma Noel Breuval in Introduzione alla filmologia, precisamente in merito alla proiezione e identificazione dello spettatore nel corpo filmico,


"Nella lettura del romanzo l'identificazione è forse

ancora più facile quando i personaggi rimangono

vaghi, indefiniti. Allora è possibile identificarsi con

vari di essi, attribuire loro qualità del proprio io"


nell'opera fondamentale che andremo ad analizzare, Che cosa hai fatto (Baldini, Castoldi, Dalai, 2001), il processo di identificazione e condivisione delle pulsioni espresse è reso immediato e, a tratti, (pur nella sua estenuante violenza diretta e feroce), umanamente comprensibile proprio grazie ad una sincerità così potente da riuscire a mettere in gioco elementi appartenenti al corredo genetico primordiale dell'essere umano, perennemente nascosti ma pur sempre vigili e repressi a livello inconscio. Nasce da questo spirito di esorcizzante e volontaria condivisione il senso intrinseco del dare origine ad uno stile (sulla via del definirsi genere) letterario, probabilmente, di pura espressione personale latente camuffata in ipotesi plausibili da personaggio immaginario.

Quanto alla struttura, che Montanari vede, giustamente, esplodere in ambito musicale post rock, se sulla pellicola digitalizzata David Lynch distrugge il concetto stesso di cinema in quanto fotografia in movimento per farne qualcosa di talmente penetrante da rendersi puro incubo ad occhi aperti (genuina espressione tangibile delle altre realtà, ovvero quelle inconsce) e se nei processi compositivi e performativi di una band come quella dei Massive Attack si consegue il medesimo scopo attraverso una fusione tra sprazzi di rock e tappeti elettronici neri come la pece, l'obiettivo raggiunto, con esimio merito, da Montanari sembra essere quello di innalzare l'importanza del discorso libero indiretto per raggiungere verità profonde e radicate in ciò che è estirpabile soltanto attraverso una sorta di autoanalisi letteraria, un flusso di coscienza più o meno controllato e premeditato il cui scopo resta quello di esprimere l'inesprimibile (così come Lynch rende visibile l'invisibile, il nascosto dentro di sé), sovvertire il codice linguistico comune per renderlo più umano e meno schematico, meno vincolato da limiti produttivi.

Alla domanda che pone Grazia Verasani all'input di Montanari,


È forse questa la matrice del post noir? Un

esistenzialismo senza tanti cadaveri (...) ? Il

fascino di un mistero che progressivamente si

svela, e dove conta più il viaggio che l'approdo,

oltre a uno stile – una personalità – assolutamente

letteraria? La decifrazione di un malessere?


bisognerebbe troisianamente rispondere, in fin dei conti: "si, certamente". Esistenzialismo può essere la parola adatta. Così come è vero che, scorrendo le righe dell'opera in questione, "conta più il viaggio che l'approdo": allora, non importa più tanto dove si arriva ma come si arriva, quali processi di ammortamento si compiono tra le viscere dell'animo umano e in che modo e sotto quali aspetti prendono vita, innestano radici e fruttificano le paure connesse al divenire umano più introspettivo. Che cosa hai fatto non prevede delitti (se non uno o due ma nemmeno importantissimi per lo sviluppo della vicenda principale, quella di un uomo solo con i suoi più devastanti e rapaci tormenti) né alcun genere di similitudine con le più o meno avventurose storie da cinema americano: tutto risulta concentrico allo sviluppo (prima in totale regressione, poi per evasione) dell'essere umano. Nè più, nè meno.


3.1. Che cosa hai fatto

La genesi di Che cosa hai fatto è quanto di più estenuante e travagliato uno scrittore possa subire nel suo logico e graduale processo di maturazione sia di idee che di stile personale. È Montanari stesso a spiegare, tramite le pagine del suo sito internet (www.raulmontanari.it)


Stavo lavorando a Che cosa hai fatto (allora si

intitolava L'ultima decade) quando dovetti

interromperlo perché la storia della Perfezione

era arrivata da chissà dove, dal solito limbo dove

le storie aspettano di prendere vita, e chiedeva di

essere scritta con un' urgenza e una necessità

che non ammettevano indugi. Poi, però, La

Perfezione venne contrattualizzato quasi subito;

questo invece dovette attendere dieci anni, fra

schede di lettura sgomente, riscritture incessanti

(sette, alla fine) e rotture di amicizie. Per molto

tempo ho pensato che non sarebbe mai uscito.


Il primo tocco di penna, dunque, è datato 1991, dato su cui occorre riflettere particolarmente se si considera che il libro ha visto la luce solo dieci anni dopo, nel 2001, non senza difficoltà. Il motivo di un simile rinvio a lungo termine e di una lunga serie di passaggi sotto occhi allibiti di editori di vario taglio (oltre ad una implicita predisposizione al rifiuto di certa scrittura ritenuta inadatta ad ottenere sviluppi editoriali) è forse da attribuire ad un eccesso di sincerità espressiva per mezzo di una scelta di impostazione del periodo linguistico semplice, crudo e tagliente, tanto da conferire un serio scossone all'animo di chi si appresta a leggere; vuoi per inconscia immedesimazione, vuoi per distacco - seppur con relativa comprensione (anche nei frangenti più discutibili).

Certo, bisogna puntualizzare, però, un altro elemento. È lo stesso Montanari, di nuovo, a farlo:


Anche questo libro non è totalmente rappresenta-

tivo del mio mondo narrativo, ma non per difetto:

per eccesso.


L'effettiva, volontaria e quanto mai consapevole scarsa digeribilità di molti passaggi appartenenti all'opera, sia in termini di scelta espressiva che di creazione di intere situazioni, è dunque, più o meno paradossalmente, il fulcro principale, il nesso primordiale per l'espressione di quanto più terrificante, ossessivo, maniacale e contorto si nasconda sotto la stanca e malata pelle dell'anonimo protagonista. (Autobiografismo?)

In una Milano paurosamente apocalittica (camionette di polizia ad ogni angolo di strada, condizione atmosferica metaforicamente uggiosa ed opprimente), una sorta di anti-eroe senza nome né volto, una volta persi moglie e figlia a causa di un tragico incidente stradale, devastato da rimorsi, forse da sensi di colpa e, di certo, da un dolore pungente e asfissiante, decide di farla finita ma non prima di aver venduto casa e, col ricavato, aver trascorso i suoi ultimi dieci giorni di vita nel più totale abbandono a pulsioni sessuali di ogni tipo e di intensità crescente: da una giornalista televisiva all'esperienza omosessuale, dal rapporto carnale con tre minorenni alla feticistica perversione per i tableau vivant a sfondo pornografico, nella cornice di un sadomasochismo, per sua natura, cercato e temuto. La bellissima, veterana e tanto desiderata amica Béatrice, esperta e professionista in merito, lo trascina in un vortice di sensazioni, pulsioni primitive, sfoghi, rabbia e frustrazione repressa fino a catapultarlo, però, nella consapevolezza che una via di fuga alternativa può esistere, seppur priva di redenzione totale ma pur sempre dotata della consapevolezza e della forza di credere ancora in se stessi e nello scopo dell'essere ancora al mondo.

È proprio tale elemento fortemente pulsionale a rendersi artefice della base portante in funzione di ogni pur minima considerazione in termini di post noir. Nelle diverse e sempre più perversamente estenuanti esperienze del soggetto, è possibile riscontrare uno stile di scrittura in prima persona che difficilmente può trovare miglior rifugio in soluzioni alternative: il narrare a se stesso del protagonista porta il lettore a conoscenza di quanto più represso ed istintivo venga estirpato dal corpo interiore del soggetto, fino quasi a regredire in una sorta di chiusura nel proprio inferno suicida, nei meandri più profondi di quel doloroso baratro (sempre e solo) interiore.

Con l'uso di un linguaggio forse mai tanto sincero e diretto, senza freni né rimorsi, Montanari espelle una sorta di vera e propria confessione di un uomo alla deriva, una peccaminosa ma necessaria ribellione al limite di se stesso, alla paralisi di ogni elemento attinente a contesti di sensibilità interpersonale.

Vediamone alcuni aspetti e consideriamo, in sostanza, l'intero lavoro quasi come una sorta di genuina espressione di ciò che per il personaggio principale costituisce, a tutti gli effetti, un vero e proprio processo di esorcismo ai danni di un possente ed inestirpabile trauma interiore.

Dalle reazioni di natura psicosomatica (nevrosi sfocianti, spesso, in attacchi di panico incontrollabile se non con appositi medicinali) si evince una debolezza inscritta nell'abbandonarsi - volontariamente solo fino ad un certo punto - all'oblio di una personalità allo sbando e immersa fino al collo in un oceano di desolante buio esistenziale.


"La desolazione, l'orrore dell'ombra e l'orrore del

sole troppo forte, del cielo troppo vasto, il dolore

idiota e imparziale che ci modella e ci massacra,

la morte nei silenzi degli adulti, la morte laggiù,

in fondo alla strada, o più spesso qui, dentro casa,

nascosta come una vergogna, come un cane senza

occhi" (pag. 42)


La condizione di appartenenza prettamente crepuscolare ad una esistenza ormai giudicata come superflua ed ingombrante, debole nel suo stesso avere un accenno di senso, ora che tutto sembra essere sfumato, ora che ogni visione esterna al proprio ego sembra tingersi di un cupo negativismo autoreferenziale di inadeguatezza alla propria realtà, emette i primi zampilli lavici in considerazioni dirette, metaforiche solo nel giusto riferirsi ad esempi di inadattabilità. In un "cielo troppo vasto" si può tanto girovagare in cerca di qualcosa (se stessi) quanto perdersi definitivamente nel tentativo di autodefinizione. Il terrore specifico non è unicamente attribuito al senso di buio e di "ombra" interiore, ma anche al "sole troppo forte" dell' eccesso di chiarezza in precedenza paragonabile a certezze ormai divenute vacillanti, ipotetiche scorciatoie future dissanguate alla base, sputi di desideri di realizzazione essiccati al fuoco di un destino (ammesso che esista) ben poco decifrabile.


"E, improvvisamente, so cosa devo fare.

Cosa è ormai tempo di fare.

Devo annegare in un buio fatto di luce: una luce

come quella in cui si torcevano quei corpi, una

fiammata che mi consumi, finalmente" (pag.11)


Buio e luce si confondono e divengono complementari: oblio e crollo di pur minime certezze si fondono fino a plasmare la consistenza di un unico grande vuoto, un'unica gigantesca spirale invisibile di inquietudini e, al tempo stesso, solide prese di posizione. La decisione prende corpo: cercare una fine che abbia, suo malgrado, un senso, un unico grande scopo: consumare il consumabile, sia di se stessi che del cadavere terracqueo in cui si è assorbiti.

Il continuo ed incessante riemergere delle paure più profonde del soggetto protagonista, legate a quanto di più traumatico accaduto in un passato non eccessivamente lontano, è assolutamente estremo, sia come potenza interiore devastante che come ripercussione sulle azioni compiute nel presente. In ogni singola pagina, in ogni singolo periodo, in ogni singola frase traspare, con netta evidenza, quel dolore angoscioso misto ad una rabbia longeva e drasticamente retroattiva insita nel senso più incompreso del disperato disorientamento vissuto da un uomo giunto ipoteticamente al capolinea. La regressione a pura pulsione umana sfoga il suo impeto in autocommiserazione masturbatoria


"Sto un po' così, senza pensare a niente, poi una

sensazione comincia a strisciarmi dentro...non è

un pensiero perché davvero non sto pensando, e

non è nemmeno un' immagine. Sento qualcosa

di duro in gola, o piuttosto è la gola che diventa

dura.

Respiro corto, provo a resistere ma è inutile. Mi

metto a piangere, singhiozzo forte, girandomi su

un fianco e cercando di soffocare la voce fra i

cuscini e le foto, ma è più tenerezza che altro,

tenerezza per me stesso, credo, e di colpo il ri-

cordo di aver detto a mia moglie, un giorno,

che il sesso per un uomo comincia con una se-

ga e finisce con una sega" (pag.26)


così come sfigura anima, mente e corpo per mezzo di attacchi di panico sinonimi (oltre che di un profondo disagio sia fisico che interiore) di un potente spirito di evasione dalla malattia paralizzante e mortale del disamore per il concetto stesso di esistenza.


"Mi passo una mano in faccia – sudo freddo. Il

cuore picchia in gola (...) Volto la testa troppo

in fretta e improvvisamente cedo.

...Synchronicity. Santana, Abraxas, il terzo,

Caravanseraj.

Cedo, cedo. Adesso arriva la valanga e io non

posso farci niente, come al solito!

Soft Machine, I, II, III, IV, V, VI, VII. David

Sylvian, Brilliant Trees, Secrets Of The Beehive,

Gone To Earth...

Succede sempre così, e anche la prima volta,

dieci anni fa, è stato in un negozio. Forse non

dovrei andare nei negozi. Forse dovrei crepare

una buona volta. Dio mio, ce l'ho addosso...

Darshan. Talking Heads, Fear Of Music, Remain

In Lights, Speaking In Tongues. Tuxedomoon...

Dalla normalità al panico in due secondi. (La

normalità!) Mi sta prendendo in pieno, cazzo.

Dovrei non pensarci, distrarmi, ma come faccio

a non pensarci? (...)

Le gambe sono vuote, il cuore rimbomba nel

collo e nel cranio. Ci sono stati anni in cui

avevo tre, quattro attacchi di panico in un

giorno. Andavo a letto prestissimo la sera,

volevo solo dormire.

...il primo, The Yes Album...

perché ogni giornata si era trasformata in un

tunnel, aprire gli occhi al mattino e ricordare

troppo presto l'orrore, non ti sei ancora alzato

dal letto e già speri che sia sera e che riuscirai

almeno a dormire, dimenticare per qualche

ora la materia umana purulenta e spalmabile

sul marciapiede che sei diventato, la piaga

infetta, il buco nero del culo del mondo.

(pp. 58 – 61)


L'impeto della pulsione autodistruttiva, per di più, non si ha solo nell'esternazione dello sfogo di matrice esclusivamente interiore, ma anche e soprattutto espressivamente, ovvero nella scelta minuziosissima del non puntualizzare alcun particolare (fatta eccezione per quelli, non a caso, più estremi e feticisticamente inconfessabili) per non dover decifrare neanche quanto di più naturale e (anche qui non a caso) convenzionale un essere umano possieda dalla nascita: un nome.

Annullare l'identità del soggetto, quindi, come annullare implicitamente il soggetto stesso.


"mi annuncia il centralinista chiamandomi

per nome"


Un annullamento che, per di più, comporta una inequivocabile dispersione interiore.


"Ormai sono come un soldato arrivato al

fronte. Impossibile tornare a casa. E dove

sarebbe, poi, la casa?"


Una sorta di iperbolizzazione della psicologia del personaggio si rende utile all'approfondimento dell' Io più nascosto ed inesprimibile, malato, la cui possibilità di emergere in superficie, oltre alla concessione del detentore, offre la sua partecipazione per mezzo onirico.


"Sono a casa, la mia casa di quando ero

bambino.

C'è molto buio.

Molto buio, si.

Mia madre sta seduta su una sedia, e anch'io

sono seduto, ma per terra, sul tappeto.

Aspettiamo qualcuno.

La mamma ha paura, i suoi occhi sono pieni

di angustia, di dolore.

Sembra così debole, così incapace di difendere

se stessa e me che finisco per alzarmi, stringo

le mascelle tanto da sentirle scricchiolare, e

faccio due passi avanti, accostandole una mano

alla faccia con un gesto rabbioso.

È un inferno, è un inferno, sussurra lei, come se

quell'uomo fosse già arrivato.

Si, mamma, un inferno, rispondo, e sembra che

il buio parli la mia voce. È un inferno, e adesso

te ne accorgerai" (pp. 82 – 83)


L'assenza di virgolette nello scambio di dialogo al limite del surreale tra il suo essere interiore e la figurazione fantasmatica della figura materna come unico referente delle imminenti intenzioni autodistruttive testimonia, con evidenza, come, mantenendo univoco il corposo discorso libero indiretto in prima persona camuffata da terza, il soggetto si stia rivolgendo, in sostanza, a nessun altro al di fuori di se stesso: dialoga con le proprie pulsioni interiori, con il proprio inconscio represso, fedele custode di tutte le ansie e di tutti gli orrori impliciti ed emergenti al richiamo del disagio esterno. È l'incipit della dissociazione, del non riconoscere più se stessi, la propria immagine materiale, del non riuscire o del non voler più associare i propri tratti a quelli di un essere vivente.


"Che strano: ho passato la vita a guardare la

mia faccia allo specchio, eppure non riesco a

ricordare com'era...non so...cinque anni fa,

vent'anni fa. Anche solo due anni fa, due mesi

fa. Potrei fornire un perfetto identikit della

faccia di un controllore che mi ha fatto la

multa sul tram, la vigilia di Natale dell'85,

ma non ricordo cosa ho visto allo specchio

quando sono tornato a casa. (...) Posso pro-

varle tutte, chiudere gli occhi, concentrarmi,

ma a quanto pare ogni immagine della mia

faccia allo specchio si sovrappone alla pre-

cedente e la cancella subito dai ricordi"

(pag.62)


Ma forse, ciò che conta non è tanto l'aspetto esteriore quanto, prevalentemente, l'essenza del graduale e insopprimibile indebolimento di sopportazione del tormento interiore.


"È inutile che mi metta una maschera che non

mi sta sulla faccia. Peggio che inutile: rischio

di rovinare tutto. Tanto il senso di colpa sta

sempre lì, in agguato come un virus annidato

fra i gangli nervosi." (pp. 41 – 42)


Ma l'incancellabile dolore umano, quello che colpisce con fermezza una volta e per sempre, permane nonostante i più disparati tentativi di smembramento di ogni elemento appartenente al contesto interiore, per poi riemergere proprio nel più drastico dei momenti di distacco ed alienazione. In una delle situazioni di maggiore perdizione, aiutato dall'amica Béatrice (mora), per giunta sotto l'effetto di un potentissimo allucinogeno, quasi come in un sogno di entità simile al precedente ma, stavolta, quasi più reale del reale data la sua entità, si, onirica ma conforme al contesto reale del personaggio, l'essere interiore sfoga, in maniera definitiva, i più laceranti ed irrecuperabili dispiaceri di una vita ormai trascorsa, sconsacrata.


"Scendo di nuovo con la bocca, mi inarco per

riuscire a sfregarle le labbra sul seno, poi sulla

gola e sul collo caldo, la pelle dorata per arriva-

re alla quale devo farmi strada – e anche questo

è meraviglioso – fra le ciocche di lunghi capelli

biondi e ramati che spuntano dal sacco.

Biondi?

Mi fermo un istante, solo un istante, ed è come

se lo stupore fosse subito travolto dalla gioia.

Continuo a penetrarla, ad affondare, salgo con

la mano, tendo i muscoli del fianco che lei subi-

to accarezza con la punta delle dita, accendendo

brividi nella mia schiena, e arrivo alla testa. Il

sacco è largo, ormai già quasi discosto. Basta un

movimento per toglierlo del tutto e scoprire

questa faccia tanto amata, l'idolo della memoria

e della fantasia(...) La bambina dorme nella

stanza accanto e la porta è aperta, come allora,

come sempre. Dobbiamo fare piano, anche se

qualche volta ce lo dimenticavamo, e fra i gemi-

ti e i respiri in affanno irrompeva il pianto della

piccola, l'eccitazione diventava irritazione e poi

subito tenerezza. (...)

Mi volto, sempre sorridendo in estasi, senza

smettere di urtare contro il corpo di mia moglie.

(...) La faccia affondata nel cuscino non è più

dorata, la bocca non sorride più. La pelle è

impregnata di un pallore grigiastro, morto, e

il lungo taglio slabbrato, con i punti di sutura

neri fra il rosso e l'oro dei capelli, corre dalla

guancia alla tempia e si perde dirigendosi

verso la sommità del cranio.

Resto immobile, senza quasi respirare.

>, mormoro alla

fine, la stessa parola di quel giorno, vedendola

stesa nella bara, ricucita e rattoppata dopo

l'incidente. E proprio come allora quella che

mi sento penetrare nel corpo non è tristezza o

disperazione ma stanchezza, uno svenire lento

che mi uccide" (pp. 216 – 218)


Riemergono le allucinazioni di un passato inamovibile, una macchia indelebile sul tessuto di quel che resta di un'esistenza ormai abbandonata a favore di un impulso autodispersivo, consenziente e quanto mai comprensibile per mezzo di una abilità discorsiva così diretta (pur nella sua matrice onirica), glaciale eppure così profonda, intima, sacra, confessionale. Tutto è radicalmente una proiezione interiore eppure si rende mostruosamente vero, se è la realtà interiore a prevalere su ogni circoscrizione vitale. Il processo allucinogeno, in più, appare esorcizzante dal momento che turbano violentemente lo stato d'animo del soggetto, materializzando, psicosomaticamente, tutte le paure apparentemente represse, tutte le ossessioni ed inquietudini nascoste innestando in lui, inconsapevolmente, una sconosciuta capacità di redenzione finale raggiungibile esclusivamente per mezzo di una malsana passeggiata sul filo del rasoio più tagliente. È la consapevolezza di non poter ricucire l'irrimediabile, la futura decisione di provare a dare comunque un senso ad un nuovo risveglio dal letargo di una vita intera passando per l'autopunizione del dissenso fisico. Trattandosi di elementi al limite del concepibile ma sostanzialmente mai così umani e veri, non è un caso, allora, se il protagonista non appare come l'unico essere vivente dotato di simili necessità pulsionali: il racconto svela, anche se come elemento estremamente fugace e più che secondario, la passata presenza di un disegnatore che, analogamente al protagonista ma su scala differente, ha ugualmente dato sfogo estremo della propria interiorità flagellata attraverso osceni e terrificanti disegni su carta raffiguranti persone conosciute (e odiate) completamente macellate al limite del riconoscimento artistico da "body art". Si tratta, qui, di una violenza inenarrabile desiderata eppure mai eseguita materialmente a livello carnale, elemento che, per quanto rapidamente evaporato, può essere equiparato ad una sorta di sdoppiamento del soggetto in una figura invisibile ma testimone della non unicità delle sue gesta, un valido esempio di appartenenza ad un'essenza sempre e comunque animale prima ancora che civilizzata.

Oltre una concezione, se vogliamo, orwelliana da 1984, esalante dalla caratterizzazione di una Milano profeticamente sotto assedio da Grande Fratello militare, controllore e censore per i desideri umani di realizzazione anche solo ideologica (scontri di piazza, eccessi governativi), in Che cosa hai fatto (azzardiamo) compare, andando per il sottile, anche un accenno di marca lynchiana raffigurato nella continua presenza di telefoni incessantemente e irritantemente squillanti, con tanto di chiamate in codice e prive di una qualsivoglia risposta: tale particolare ricorrente potrebbe (sempre azzardando) essere accostato all'uso filmico del telefono inteso da Lynch in quanto simbolo onirico di mezzo di comunicazione con se stessi, con il proprio terzo occhio (si veda, come esempio su tutti, lo splendido Mulholland Drive, in cui è proprio il telefono, reso apparentemente secondario, a materializzarsi nei momenti in cui il sogno freudiano di desiderio inappagato della protagonista emerge nei risvolti più tragici del rendersi vittima delle proprie stesse paure di non realizzazione fino all'estremo atto finale).

Ad ogni modo, vale, in tutto e per tutto, lo stesso discorso accennato per Mezzanine in precedenza:


"i gusti sessuali sono incomunicabili, come le

paure...quelle che non hai tu, non le capisci

negli altri." (pag. 164)


Ancora una volta: "per capire un poeta ci vuole un altro poeta".

La chiave di lettura dell'intera opera, però, sembra essere racchiusa in una sequenza in particolare (pp. 182 - 197), quella, cioè, in cui il protagonista si trova, d'un tratto, immischiato involontariamente, perché di passaggio, in tumulti di piazza scoppiati dopo l'ennesima beffa della classe politica nel confronto popolare. Inizia il caos (in una memorabile descrizione) :


"Piazza del Duomo è invasa dalla folla, come

da anni e anni non succedeva: migliaia di

persone, sopra le quali si agitano immense

bandiere nere, a decine, forse a centinaia. (...)

La gente grida, qualcuno ha già cominciato a

spaccare vetrine; due taxi rovesciati si muovo-

no piano, a strattoni, spinti da decine di perso-

ne, e molti hanno delle fasce o dei foulard neri

intorno al braccio."


Scoppia la baraonda:


"Nella piazza hanno azionato gli idranti. Tre...

no, quattro camion dei pompieri sono sbucati

da corso Vittorio Emanuele e scaricano acqua

sulla folla, che sbanda, grida mentre i lacrimo-

geni cominciano a rotolarre sull'asfalto. La

gente cerca scampo, si schiacciano gli uni

addosso agli altri, spingono verso le vie di

sbocco, scontrandosi con gli scudi e i manga-

nelli dei poliziotti, che hanno chiuso tutti gli

accessi; quasi subito si sentono degli spari, e

le urla aumentano ancora."


La polizia ha imbottigliato i ribelli e un ragazzo che ha provato a sfasciare, nel caos generale, l'auto noleggiata dal protagonista


"gira due o tre volte la testa, quindi incontra

di nuovo il mio sguardo. Ha gli occhi sbarrati,

ma più che spaventato sembra sconvolto da

un'impotenza rabbiosa."


L'uomo lo aiuta e, insieme, i due riescono a sopravvivere alla baraonda fuggendo via dalla piazza, mentre tutto intorno, ancora, è caos crescente, come una vera e propria apocalisse urbana.


"Lui è sempre dietro, un cane con la zampa

spezzata mi guarda e guaisce, un cinese è

fermo con le mani alzate, in tre prendono a

calci un grassone, una delle macchine brucia,

puzza di gomma, sirene, un tamburo continua

a suonare da solo."


I due, dileguatisi, trovano rifugio in una vecchia e decrepita (sembra) cripta sconsacrata.


"Infiliamo il vicolo, incrociando gente al ga-

loppo e un paio di poliziotti che ci ignorano.

Svoltiamo uno, due angoli, finché io non mi

fermo davanti a una porta nera, alta e stretta.

(...) Entriamo, accostandoci la porta alle spal-

le.

Siamo in una cappella che se non fosse al li-

vello della strada sembrerebbe una cripta, col

soffitto alto e il pavimento sudicio. Tre pareti

su quattro sono ingombre dei resti delle vittime

di una pestilenza: ossa e crani polverosi,

ammucchiati insieme, schiacciati contro i muri

da reti di ferro arrugginito. Sulla parete di fondo

un minuscolo altare, con un tavolo ricoperto

da quattro ceri e da un drappo che una volta

doveva essere bianco."


I due incontrano, all'interno, l'anziana e malata custode della vecchia cappella in cui sono finiti. Si scopre che si tratta di un luogo conosciuto dal protagonista.


"Quando sono stato qui la prima volta andavo

all'università. La donna era ancora piena di

energie e declamava profezie. <<

verrà>>,

gracchiava, poi ha attaccato con le

sue preghiere miste a gesti e allusioni a certi

nemici, uomini dal cuore nero, diceva, che

sarebbero stati sgominati dal ritorno di lui."


Se sommiamo, emotivamente e simbolicamente, questo lugubre incontro con il caos apocalittico esterno, otteniamo una perfetta metafora dell'apocalisse dell'uomo moderno, vittima sacrificale di un mondo al quale non sente più di appartenere, capro espiatorio per espressioni di dissenso censurate e bandite dal contesto civile burattinaio e dominante. È, in sostanza, la condizione umana di appartenenza del protagonista, con tutte le frustrazioni, le disperazioni e le agonie personali degne del più pulsionale desiderio di esternazione. "Verrà, lui verrà", dove "lui", più che un'entità divina evocata, sembra quasi essere, col senno letterario di poi, l'essere umano in necessario aiuto verso se stesso.

Per ben comprendere la già indicata chiave di lettura, però, occorre amalgamare il senso metaforico di questa sequenza con quello di un'altra successiva [pp. 218 – 219], precisamente la già citata allucinazione sotto effetto di stupefacenti nella quale riemerge il fantasma di un passato incancellabile.


"Quello che mi si spalanca davanti è uno spazio

infinito, un universo di pura luce bianca,

abbagliante, un vuoto senza confini intorno a

me. (...) Sono solo come un cieco in mezzo a

questo nulla.

Mi fa paura, una paura terribile, uno sgomento

- perché non mi sento solo abbandonato ma

incredibilmente piccolo, al centro di questo

deserto luminoso, e comincio a piangere e

gridare con una voce sottile, irriconoscibile."


"Vuoto". "Deserto". "Nulla". Parole più che fondamentali per la necessaria identificazione della dispersione più terrificante di ogni punto di riferimento intrapersonale. Se la scena della cripta sconsacrata appare già, di per sé, metafora lugubre dell'apocalisse umana (associata al caos esterno della scena), qui il suo valore sommo ed estremo acquista una fondamentale importanza nel suo divenire riferimento di una vera e propria disperazione universale, qui ed ora, sulla superficie terrestre. La completa dispersione del sé, il terrore paralizzante e totalizzante del nulla più assoluto, della più drastica consapevolezza circa l'inesistenza di un qualunque accenno al solo tentativo di dare un significato al termine "divenire", rappresenta la definitiva discesa negli inferi dell'animo umano: la decisa sensazione (quasi certezza) di esser soli.

Ma è col volgere finale della vicenda narrata interiormente che si deduce l'esistenza, di pari passo col senso di vuoto e di dispersione, di un barlume di speranza nella ricerca intrinseca di una pur minima forza autoestraente dalle sabbie mobili delle più terminali riflessioni fin qui riscontrate.

Si scopre che Béatrice ha conservato ogni avere del protagonista (soldi, casa, memorie) e, praticamente, salvato la sua intera vita, fosse anche soltanto per aver rappresentato, da sempre, un desiderio più o meno irraggiungibile lottando per il quale, forse, l'uomo avrebbe potuto avere motivo aggiuntivo di sopravvivenza.


"Ma perché la casa sembra disabitata, visto che

quel tale mi ha detto che la prendeva per starci

da subito? Per un attimo, questo dettaglio mi

sembra collegarsi ad altri particolari più o meno

di poco conto, disseminati lungo questi dieci

giorni e forse anche prima, come indizi di una

realtà diversa che fin dall'inizio mi è sfuggita."

(pag. 250)


La docile consapevolezza di aver avuto inavvertitamente al proprio fianco una personalità umana dotata di sensibilità, nonostante la crudele freddezza della "professione" svolta, porta il soggetto a comprendere l'importanza di un progetto enorme, inafferrabile (l'esistenza stessa), mastodonticamente superiore ad ogni elevato pensiero filosofeggiante, inaccessibile ed ingovernabile se non con la destrezza del lasciare che non sia solo il caso ma anche (e soprattutto) la volontà materiale a rendersi sinonimo di sporavvivenza sia fisica che interiore. Il tutto non senza una buona dose di rabbia per l'ostacolo ricevuto: ma si tratta, anche qui, di una sorta di esorcismo per una nascente consapevolezza pur latente, sulla inestirpabile base del dolore vissuto ma appreso come lezione di crescita e maturità nella ricerca (non facile) di una nuova e definitiva personalità.


"Mi sembra che il mio ultimo dovere sia quello

di conservare l'orrore che mi ha sommerso, vigi-

larci sopra come una sentinella; l'orrore mi darà

forza, come la molla che carica un giocattolo, e

così tutto sarà più facile." (pag. 252)


Nel suo rapido e nervoso sfrecciare metaforicamente automobilistico verso una destinazione ignota,


"Non ci sono, non mi ritrovo, e in certi mo-

menti mi sembra di correre verso me stesso,

come se la memoria mi aspettasse in fondo

alla strada." (pag. 260)


l'uomo approda sulla riva di un fiume dove, tralasciando l'omicidio salvifico di un pedinatore per mano di terzi, sul punto definitivo di quello che dovrebbe essere, di lì a poco, il non ritorno terminale, riesce a trasformare le ossessioni che lo hanno portato alla "deriva" in una vera e propria ancora di salvezza, una sorta di rifugio per quel che resta delle speranze di redenzione.


"Non so perché, mi viene da pensare a una

giornata di tanti anni fa, un pomeriggio sulla

spiaggia. (...) Non è successo niente di parti-

colare quel giorno. Avrò avuto dieci o undici

anni. Mia madre si era stesa a prendere il sole,

e io invece di andare a giocare a palla con gli

amici dietro la cabina ho deciso di fare una

passeggiata, e così mi sono infilato nel fitto

delle sedie a sdraio, degli ombrelloni, dove

formicolava una folla che sembrava esaurire

tutte le età, le lingue, la bellezza e la bruttezza

del genere umano." (pp. 263 – 264)


Si dimostra viva, dunque, anche se assediata dai turbamenti e dai sensi di colpa e di inadeguatezza più frastornanti, la capacità di intendere se stesso come forma di vita, dotata di anima e corpo capaci entrambi, con giusta dose di volontà e coraggio, di risalire dal fondo scavato.


"Passo dopo passo, ho cominciato ad avere

l'impressione che non mi fosse mai capitato,

prima, di stare in mezzo a qualcosa che

assomigliasse tanto a quello che immaginavo

quando pensavo o pronunciavo la parola vita.

Quella era la vita, il mio breve passato nei

gesti dei bambini che costruivano castelli di

sabbia e giocavano fra secchielli e biglie e

palette, il futuro insondabile, pieno di minacce

e promesse solo intraviste negli occhi degli

adulti." (pag. 264)


Prende forma la consapevolezza di appartenere a se stessi prima ancora che al dolore per una perdita, sia materiale che spirituale. Pertanto, l'autoconfessione assume i tratti di un imminente, se non rinnovato, istinto di conservazione morale.


"A tradimento, un'ondata di amore per me

stesso, per il mio corpo, per la mia memoria,

mi gonfia gli occhi. (...) Mi accorgo di

piangere sentendo le lacrime scendere lungo

le guance e mi sembra una ricchezza immensa,

immeritata, essere ancora libero di scegliere.

Questa è una resa, non una vittoria, ma non

mi importa." (pag. 267)


"Corpo" e "memoria". Due elementi uniti in un'unica frase in quanto complementari, dipendenti l'uno dall'altro: lo stato fisico è fortemente condizionato dalla salute interiore. Un puro livello di percezione psicosomatica di una realtà che, (di nuovo) qui ed ora, si rende tangibile tramite il conferimento di un qualsivoglia senso ad un' intera esistenza terrena.

Ma il mistero che porta l'uomo a distruggere così come a salvaguardare se stesso resta comunque metaforicamente indecifrabile:


"Le stelle brillano sopra la mia testa, ma io

non le conosco; non sono mai stato capace di

orientarmi con le stelle. Rallento e alzo gli

occhi, strizzando le palpebre, e provo per un

attimo a decifrare questa distesa pulsante, a

indovinare forme e geometrie, con il risultato

che inciampo in una radice e per poco non

finisco per terra." (pag. 276)


Si può navigare o colare a picco tra le acque burrascose del proprio senso di inadeguatezza al motivo principale che ha portato alla venuta al mondo, così come si può riemergere ed approdare a rive ricostituenti. Una, dieci, mille volte. Non è, però, concesso capire, analizzare fino in fondo il mistero di se stessi nella complessità dei propri universi interiori. La "radice" dell'indicibile universale non può lasciar percorrere indisturbati il tenebroso sentiero della comprensione dell'irraggiungibile.


"Guardo ancora su, cerco una direzione, ma

non c'è nessun senso in quello che vedo. (...)

Inutile rivolgersi alle stelle. In un modo o in

un altro, arriverò dove devo arrivare."

(pag.276)


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