“Effetto Notte”. François Truffaut. 1973.
Che odore avrà, quella pellicola? Sì, esatto, proprio quella
che quell’indaffarato ragazzo ha utilizzato, lì in quella isolata cabina, un
paio di ore fa, trafiggendo la croce di Malta ma accarezzandola con docile
destrezza, quasi dolcezza, consapevole di un valore pressoché superiore,
quantomeno venerabile se non sacro in uno spazio e in un tempo altro, sia dalle
normali cronologie umane che da sé, dal proprio stesso farsi (come dire)
assenza, ingiustificabile mancanza di scopi, obiettivi, lungimiranze a caso in
un’epoca di atroce e pseudo-dissidente buio interiore.
Mai come in quella sala, in quei precisi attimi di
contemplazione atemporale, realmente onirica seppur ben ancorata a quel fattore
di realtà sostanziale mai troppo fine alle circostanze, mi sono sentito triste,
affranto e deluso, profondamente deluso, dalla consapevolezza della costrizione
di dover rivolgere, di nuovo, questi stanchi occhi ad un esterno senza più forma
né valore, senza più colore né sapore, senza più desiderio alcuno che non fosse
quello di forzare un sorriso a scopi di futile e punibile (ah, se punibile)
propaganda meramente non-esistenzialista.
1973: altra epoca, altro spirito, altre intenzioni. Altre
possibilità reali, tangibili, per quanto costernate da difficoltà
politico-sociali oggettive, consistenti pur in ambienti e circostanze, però,
non del tutto limitate.
2013: sfascio, disonore, complessità ingiustificabilmente
esistente. A quale scopo? Perché? Per quale motivo? Epoca di velocità,
immediatezze e ipermediazioni secolarmente sospirate e finalmente raggiunte col
solo battere delle ciglia. Epoca, però, di cattivo, pessimo, sciagurato,
infame, lecchinoso utilizzo di risorse fenomenali, sovrumane, proprio per
questo tenute alla larga, costantemente al bando dei limiti stessi del proprio
vigliacco essere al mondo.
Quanto era semplice anche solo chiedere un lavoro? Meglio
del meglio se in termini creativi, in ambiti di produzione artistica non importa
se più o meno attinente a metodiche di divulgazione oggettiva di sostanza
corposamente valida per situazioni morali dignitosamente elevate.
Proprio ora, in questo preciso istante, proprio mentre
quell’indaffarato ragazzo, lì in quella isolata cabina, ha dovuto, per forza di
cose, riaccendere le luci in questa sala sempre troppo piena di chi davvero,
credete, non merita un usufrutto gratuito di tanta spontaneità, delicatezza,
suprema scelta affettiva con relativa dichiarazione audiovisiva di eterni intenti,
penso inevitabilmente a tutte le volte che le mie pupille non riuscivano (e
ancora non riescono, sia chiaro) a distendersi al buio delle anticamere delle
notti più dense di inquietudine e spietata incertezza lacerante. Sarà questa la
strada che davvero potrò e saprò percorrere? E se invece…? E se poi…? Vuoi
vedere che…? Saprò mai…? Forse dovrei…Chissà…
Naturalmente, io non c’ero. Quindi, forse, non avrei nemmeno
il diritto di esprimermi in questa direzione, se proprio vogliamo andare a
controllare nel profondo. Ma, credete, meglio non addentrarsi troppo in là nei
meandri di un’anima come la mia, così complessa e, al contempo, paradossalmente
e laicamente esigente soluzioni condotte agonisticamente per mano a tratti come
in un gioco di andirivieni emotivi giusti, leciti, nel loro stesso divenire
patriarcali nei confronti del proprio distinguersi dal contesto e costituenti
quel necessario patrimonio universale che qualsivoglia essere umano dovrebbe
conservare (e portare orgogliosamente avanti, sempre più avanti, se non oltre)
dentro di sé con la più gelosa delle affermazioni.
No. Oggi, ora, non è così. Non è e basta. Il rammarico più
profondo è quello della consapevolezza, magari precoce ma comunque
considerevolmente esistente, di esser nato nell’epoca sbagliata.
Com’era semplice sedersi ad un tavolino, in una stanza
d’albergo, accendere una sigaretta, ravvivare quella del proprio collega,
aprire le pagine di quel copione e passare la notte intera a studiare il modo
migliore per risolvere il rapporto tra due personaggi protagonisti. No. Ora non
è affatto così. Non è affatto. Ora non è concesso un simile divagare, proprio
per l’essere vigliaccamente considerato, appunto, un divagare. Solo per
arrivare a poter avere la possibilità di esprimere le proprie idee si deve, per
forza di cose (ma perché? Perché?! Mi sia spiegato una volta per tutte:
perché?!), continuamente, inarrestabilmente, sostenere e superare a pieni voti
quell’ingiusto e arduo esame attitudinale. Chi sei? Che vuoi? Da dove sei
spuntato mai? Perché mi stai disturbando a tal punto? Perché mai dovrei
ascoltarti? Perché mai dovrei gettare al vento o scaricare nel cesso il mio
prezioso tempo per leggere quello che hai da raccontare? Preparami un
trattamento dei tuoi pensieri, se proprio vuoi.
Forse perché non sei eterno, sarebbe una possibile e magari
anche giusta risposta. Forse perché chi sedeva prima di te, su quella
immeritata poltrona, aveva la speranza di fare del suo creato qualcosa di
avvicendabile, pratica che (tu lo voglia o no) risulterebbe ancora adesso,
mentre quell’indaffarato ragazzo, lì in quella isolata cabina, manda a nanna
celluloide e metallo, assolutissimamente necessaria alla sopravvivenza di tutti
quelli che, proprio come te, ora che quell’indaffarato ragazzo aspetta che
anche le mie membra accettino di tornare a far parte di una realtà ormai
solidamente inaccettata in quanto inaccettabile, vitale al sostentamento di ciò
che tu reputi come il tuo lavoro, ma che lavoro non è, stando a quello che,
invece, tanto fermamente sostieni per giustificare l’assenza di un qualunque
tuo libro paga.
Ebbene, proprio mentre quell’indaffarato ragazzo, da quella
isolata cabina, cerca di allertarmi sollecitandomi ad un chissà quanto
legittimo rientro tra mura ormai non così tanto fraterne, io maledico
mortalmente te e tuoi falsi simili, perché quello che quell’indaffarato
ragazzo, da quella isolata cabina, lassù, ha proiettato ai cuori e alle anime
di un’intera vita trascorsa nel desiderio non di realizzazione (no), bensì di
lecita e costituzionale espressione, altro non è se non ciò che mi spetta di
diritto, per il solo dato di essere, nel vero senso (più ma anche meno
filosofico) del verbo.
L’Arte e la Scienza sono libere e libero ne è
l’insegnamento. Libere. Non liberamente usufruibili a proprio piacimento o
interesse tutt’altro che collettivo. Libere, non “hobby”. Libere, quindi
doverosamente sostenibili, come una qualunque attività legittimamente retribuibile.
Ah, già, perdonami: oggi, ora, proprio mentre quell’indaffarato ragazzo ha
assunto lo status di rassegnata decisione, scegliendo (praticamente costretto)
di lasciarmi qui a marcire volontariamente sulla pelle sintetica di questa pur
comoda poltrona, non accetti più un simile discorso perché non ne vale la pena,
tanto c’è altro da fare, altre cose sono le più importanti. Già, vero. È più
importante rassicurare un sé diluito, liquido e inesistente (eppure così
influente, caspita!) che assicurare un bisogno netto e reale perché davvero
tangibile (ah, eccome se è tangibile…e quanto è tangibile…fanno così male le
sue percosse…ma tu neanche le senti, da così lontano).
Io non sono niente, non sarò mai niente, dice il poeta. Non
posso voler essere niente perché non mi è concesso: non esiste, per te, che
comunque gestisci il mio mancato pane, lecito motivo perché io continui a
pretendere ciò che mi spetta per diritto di nascita intellettuale.
Comunque sia, non saprò fare altro, fino all’estremo
crepuscolo, che detenere in me, sempre e solo in me, unicamente in me,
disperatamente in me, tutti i sogni del mondo, come suggerisce ancora quel
poeta e anche quell’altro, mai così fratelli di notti mai così inutili, fredde
ma eternamente intense del mio ardere contro tutto, nonostante tutto.
E tu prosegui pure nei tuoi sogni d’oro, sceicco della vera
fame. Sogni d’oro a te, convinto cacciatore di tempi che non sono più.