Avellino, 10 agosto 2010. Ore 12:00 circa.
Mi vesto più leggero possibile. Il caldo non è più opprimente come nel mese scorso ma si fa comunque sentire. Scendo di casa e passeggio in direzione Corso Vittorio Emanuele come di consueto nelle soste prolungate tra le braccia della mia città natale (“Mio paese, così sgradito da doverti amare “, direbbe Vittorio Bodini). Al mio risveglio non avrei mai potuto pensare che la mia quotidiana passeggiata mattutina, oggi, sarebbe stata alquanto particolare.
Mi fermo in uno dei mille bar che ormai dominano sul territorio di un Corso mai così dotato di afa moralmente irritante (far crescere qualche albero proprio non è nelle doti intellettuali di un assessore degno di tale carica), come se di bar, ad Avellino, non ce ne fossero mai stati. Circumnavigo lo sguardo tra le varie pezze scadenti da mercatino rionale con marchio Tezenis o non so cos'altro, quando, dopo pochi metri, arrivo in prossimità di ciò che resta del vecchio locale che ospitava Ananas & Bananas. Con mio sommo stupore, noto che stavolta, dopo un intero anno di assenza e di scommesse su cosa sarebbe uscito fuori nel post Silvia & Michele in quel particolare punto, il locale è aperto e, soprattutto, porta lo stesso e identico nome della gestione precedente (“Ananas & Bananas”) con tanto di marchio.
La cosa mi mantiene anestetizzato per qualche secondo, dopo di che proseguo per una ventina di metri quasi volendo far finta di niente, per poi, però, fermarmi e voltarmi di scatto dicendomi “e no, cazzo, devo vedere: voglio capire”. Dunque faccio ritorno nel negozio ed entro lentamente. Saluto la ragazza dietro il bancone intenta a sistemare qualcosa e chiedo se posso dare un'occhiata in giro. Mi dice di si, quindi avanzo e mi guardo intorno.
Quello che noto è che il locale non è cambiato di una virgola; solo l'arredamento è leggermente diverso, ovvio, ma di lavori di ristrutturazione o di particolare cambiamento spaziale interno neanche l'ombra. L'ingresso gode dello stesso e identico bancone con, di fronte, una serie di scaffali con su poggiate delle borse inutili di non so quale materiale scadente; ognuna di queste porta, sulla sua superficie, disegni che richiamano copertine di dischi famosi, fotografie di personaggi dello spettacolo e via dicendo. In più, l'occhio mi cade su una serie di sacche in tela con il disegno del marchio del negozio, un ananas contornato da due banane stile parentesi. Sto quasi per incazzarmi quando alzo lo sguardo e vedo, in fondo al locale, altri scaffali contenenti una serie di dischi, sia in cd che in vinile, letteralmente ammassati alla cazzo di cane nonché nascosti dietro tre o quattro dischi sconosciuti e inutili per piano, poggiati in evidenza come se si trattasse di una vetrina fatta di oggetti importanti ed imperdibili. Non un ordine né alfabetico né in senso pratico, non una logica di distinzione tra generi, non un minimo pensiero di cura per l'oggetto in sé. Guardo meglio. Sposto i dischi “esposti” e il risultato è raccapricciante. Cosa ti trovo dietro? Esattamente i dischi, uno per uno (non ne manca nessuno), che Silvia e Michele avevano nel loro negozio fino a poco tempo prima di essere costretti a chiudere i battenti. Me ne accorgo a partire dalla presenza di una copia in vinile doppio di “Take them on your own” dei Black Rebel Motorcycle Club, formato che non sono mai riuscito a comprare per eterna indisponibilità economica o per altri interessi momentanei: se ne stava lì, ammucchiata come cartastraccia in mezzo a tutto il resto; la potevi quasi sentir piangere di dolore mentre la massa indistinta di vinile adiacente la spingeva contro un angolo poco funzionale del muro procurandole (a lei come a tante altre) una forte piegatura di copertina e (spero non anche) di materiale costituente il disco. A partire da questo Black Rebel, impiego circa trenta sacrosanti minuti per passare in rassegna tutto il materiale audio. Non c'è dubbio alcuno, sono proprio quelli i dischi. E si, credo di aver letto bene il nome sull'insegna.
Saluto ed esco. Quindi corro verso Camarillo Brillo per vedere se trovo Silvia e Michele in modo da poter chiedere loro spiegazioni ed informazioni. Il negozio è chiuso. So che da oggi andavano in ferie per rientrare più o meno fra una decina di giorni, ma Silvia mi aveva comunque detto che sarebbero stati dentro per sistemare un po' di roba. Niente di fatto. Evidentemente se ne sono già andati.
Quindi mi volto e vado da Pino (vedi post precedenti su questo argomento) che ora lavora in un negozio di telefonia poco distante. Ottengo le spiegazioni che desidero: quella grande, sensibile e amorevole persona che è Paolo Godas ha, si, concluso il rapporto di lavoro che aveva con Michele e Silvia (i motivi li conosce, forse, solo lui) ma ha anche pensato bene di riaprire il negozio mantenendo il nome e il marchio seppur conducendo un'attività commerciale di infima qualità e di scarsa (se non nulla) importanza culturale e di aggregamento sociale oltre che intellettuale.
In tutta sincerità l'ho presa esattamente come un'offesa personale. Ma di quelle gravi! Domanda senza risposta: per continuare a vendere dischi, anche se in modo assolutamente barbaro, indegno e sfacciato, era proprio necessario mandare allo sbaraglio Silvia e Michele?
Probabilmente, il significato di una simile scelta sta nell'impossibilità, da parte dell'esimio dottor Godas, di lasciar sopravvivere, fosse anche nel più remoto ed intimo pensiero (spero sia almeno capace di pensare davvero, al di là dell'orizzonte cartaceo monetario), la minima intenzione di portare un sacro e doveroso RISPETTO verso un nome e un marchio che ha fatto, a dir poco, vera e propria STORIA e che tanto ha significato e rappresentato per questa sempiterna città di sonnolenti.
Il dottor Godas e chi con lui sono i proprietari del marchio, pertanto possono permettersi anche di aprire un locale porno in cui l'ananas è una tetta rifatta di una puttana sprucida, stronza, impertinente e divoratrice di portafogli, mentre la banana non è più quella di Andy Warhol sul primo Velvet Underground ma la mazza arrapata di un signore distinto in giacca e cravatta che di soldi non sa che farsene e che, quindi, pensa bene di trasformarli in assorbenti per altrui utilizzo.
Fa male. Troppo male anche questo scempio. Ma di una cosa, però, sono convinto: non avranno affatto vita facile questi soggetti. Noi, tutti, continueremo ad affidarci a Silvia e Michele per ogni consiglio e per ogni guida nel bel mezzo degli universi sonici che amiamo, che portiamo dentro e che continueremo in eterno a condividere sia con noi stessi che con chi avesse ancora un briciolo di voglia di ascoltarci (il mio recente acquisto su direttive di Michele, il cofanettone “The perfect jazz collection” di 25 cd, è qualcosa di monumentale). Quello che divora ogni definizione di esistenza, in cuor mio, è la consapevolezza di continuare a campare sapendo che sotto quel nome sacro, storico, puro e genuino nei contenuti che ha devotamente regalato a questa città assurda, ora si stende un negozio pieno fino al collo di tamarraggine, insensatezze magari carine da sbirciare ma fondamentalmente inutili ad un qualsiasi tipo di crescita intellettuale.
Che possano andare in putrefazione loro, marcire tutti i soldi che hanno avuto, hanno e per sempre avranno (non importa da dove presi) e morire nella vergogna di aver infangato un nome così onesto ed importante, proprio come le vite intere che sono nate, cresciute, qualche volta morte ma sempre risorte e condivise tra quelle quattro mura ora indegne e schifose ma una volta amiche, anzi materne.
Viva Silvia, viva Michele, viva Camarillo Brillo. Viva tutti noi.
Ho trovato questo blog quasi per caso, giravo su "gugle" e mi sono trovato qui su. Ho letto il "necrologio" ripetuto dell'unico negozio di musica d'una città che, tra le montagne verdi d'irpinia, è un po isolata dal mondo.Devo dire che finito ANAS&BANANAS, è finito anche un motivo in più per "acculturarsi". Ma devo essere onesto, per me Ananas e Bananas è morto quando Pino è andato via... nessuno che, come lui, anima e cuore, trattava il cliente come un amico, gli insegnava l'amore per i cd, i vinili, per la storia del rock... un esercizio commerciale abbandonato, destinato, come palese era, a morire. Bastava usare l'ingegno e non perdere una risorsa umana così forte e si sarebbe sopravvissuti... stupidità, cecità? non so, io vedo la scelta di perdere Pino come la coscienziosa scelta di uccidere un simbolo!
RispondiEliminaCarissimo Vincenzo.
RispondiEliminaGrazie infinite per la tua preziosa attenzione ed il tuo saggio giudizio. Permettimi però di correggerti una cosa: perdere Pino non è stata una scelta del negozio ma del diretto interessato. questo non vuol dire che l'abbia fatto senza ripensamenti. Eccome. Ancora oggi, con lui ed altri amici, se ne parla tanto ricordando le splendide vicende di via Dante soprattutto. Tra stupidità e cecità sceglierei la prima, intesa nel senso dell'incapacità di chi lo ha sostituito nel mandare avanti una baracca poi non così impossibile da sorreggere. Bastava un minimo di impegno anche solo nel conoscere l'alfabeto per ordinare i dischi. Niente. Apatia allo stato puro. Oltre il resto, forse questo è quello che fa davvero male. apatia. Nient'altro. Quella di Michele e Silvia, invece, è stata forza d'animo allo stato puro nell'avere il coraggio/necessità di riaprire (vedo anche con buon seguito e buoni risultati, per fortuna). Speriamo di non dover più vivere periodi così bui, almeno non più di quanto lo sono comunque, in parte. Incrociamo le dita.
Un abbraccio
Stefano