sabato 14 settembre 2013

Rescue mission. Jovanotti, Pequeno e i finti artisti salveranno il mondo



Woodstock, 1969. «No rain» divenne un grido melodico che si poneva come obiettivo principale quello di fare in modo che qualcosa accadesse. E con quale ferrea e determinata convinzione, poi. Tra fango, acqua, sudore e sporcizia improvvisa, l’estro di centinaia di migliaia di persone non si trasformava in odio violento o filosofia risolutiva su conflitti mondiali. C’era solo l’intenzione, giustificabile o meno, condivisibile o no, di far tornare in piedi il sole. I posteri, certo, hanno comunque sentenziato, magari anche a ragione, sull’inutilità di certe soluzioni pseudosociali; se non altro, resta in piedi la memoria di una delle più grandi dimostrazioni (pur fallite, in fin dei conti) di intenzionalità, sogno e desiderio realizzabile.
Mondo, 2013. Se un’intenzione c’è, è quella di vendere merce a buon mercato, anche quando le bancarelle in questione non solo non hanno pagato il prezzo della locazione ma, per di più, pretendono di vendere riproduzioni per originali di rarità inestimabile. Deve arrivare un’eminenza del pensiero artistico-intellettuale italiano del XXI secolo come Lorenzo “Jovanotti” Cherubini (hai cinquant’anni…abbi la decenza, almeno, di toglierti quel ridicolo nomignolo da figlio di papà scapestrato) a insegnare Scienze Politiche per poi metterci in guardia da convinzioni che, evidentemente, non smettiamo, sì, di far maturare nel nostro grembo morale ma, ahinoi, sulla via sbagliata. Questo almeno è quello che sembra venir fuori da alcune dichiarazioni francamente discutibili esternate dal buon Lorenzo durante un’intervista posta in essere da Massimo Gramellini, bravo vicedirettore del quotidiano La Stampa.
«Un giorno, in una megalopoli, guardavo con orrore la favela cresciuta accanto a un quartiere ricco, ma chi era con me disse: crescere con un quartiere ricco accanto è l'unico modo in cui un ragazzo povero può pensare di cambiare la propria vita. La vera povertà è sempre povertà di visione». Prima cosa: Lorenzo caro, forse è ora di cambiare compagnia. Seconda cosa, non senza affetto: si potrebbe, allora, anche pensare che se un tizio, invece di allacciarsi la cintura di sicurezza, ne indossasse una di cartone ma disegnata bene (come ci indottrinarono alcuni artisti del raggiro non molto tempo addietro), si salva lo stesso la pelle qualora incappasse in un frontale sulla Salerno – Reggio Calabria? Per cortesia. Ma non fa niente: almeno tu hai ritmo, mica come Beethoven…e uno come Berlusconi dici che umanamente ti è simpatico…liberarsene è solo una “partita pop”. Va bene.
Cosimo Fini, poi, noto come Guè Pequeno (ah, i nomi…), un altro grande genio dell’arte italiana iperimpegnata, leader dei Club Dogo, anche lui proprio oggi, stavolta a Michele Caporosso di Rockit (che gli concede anche un bel po’ di spazio e non ne nasconde una certa comprensibilissima venerazione), ha da dire la sua su come salvare il mondo.
«Che cazzo gliene frega ad un quattordicenne di sentire una canzone che non lo rappresenta? Invece sente un testo esplicito che nel bene o nel male gli fa scattare qualcosa». Tranquillo, Cosimo caro: per molti il rap (oltre a non essere proprio nemmeno un genere musicale; anzi, oltre a non essere proprio musica) non è poi una così imponente ragione di vita. Non è che chi, crescendo, finisce per ritrovarsi la cassetta della posta piena di buste verdi pensa a scrivere o ad ascoltare ad oltranza rime tutt’altro che alla Dante Alighieri per esprimere un rancore che non riuscirebbe nemmeno a portare avanti realmente per via di certi morsi di vuoto allo stomaco. Semmai impazzisce letteralmente e fa fuori qualche povero passante più che innocente, ecco. Occhio perché poi la colpa la danno a te come “mandante morale”.
Ci sarebbe, poi, anche il dio Celentano con tutti i suoi sermoni ma, almeno per oggi, è meglio placare qui l’istinto intellettualmente omicida.
A pensarci bene, ma proprio bene bene, in fin dei conti, non possiamo neanche rigettare così tanto queste tipologie di comportamento o di pensiero (per modo di dire) più infantili dell’infantile stesso. Ed ecco un’ipotesi di motivo: questo “vecchio pazzo mondo” ha bisogno di essere salvato. Dentro, prima di tutto. Almeno per quello che è veramente possibile, tangibile, a portata di mano, meritevole di un minimo tocco risolutivo. Per sentire l’appagamento di un bisogno, si sa, occorre nutrire in sé la certezza di aver risolto quello che si pone come un problema. Se la soluzione arriva magari anche da frasi qualunquiste, sostanzialmente insensate, violentemente forse anche giuste o scarne, elementari, banali o semplici e dirette seppur ben poco costruttive, il risultato lo si ottiene ugualmente pur non ottenendo un risultato: chi vuole (o chi è portato a) sentirsi dire che in un certo modo, in un dato momento, le cose si risolveranno e andrà tutto bene di lì in avanti, percepisce una rassicurazione. Che non c’è, ma che si è messi, da se stessi, nella condizione di percepire. Quindi sta bene. Quindi è appagato. Quindi si sente salvato dentro. E intanto (complice un’arte venduta come arte ma che Arte non è) i governi si alternano, le soluzioni vere restano un terno al lotto, la propaganda sopravvive, centenaria, nelle pance della collettività ma i referendum vengono calpestati senza che nessuno batta ciglio e denigrata resta quella qualunque forma d’arte (che è Cultura, che è Pensiero, che è Comunicazione, che è Vita) che cerca veramente di salvarsi e salvare qualche maceria per conto terzi rinnovando se stessa nell’eterno tentativo di rinnovare le modalità di comunicazione capaci di fuoriuscire da precedenti linee comunicative prima rosicchiate e poi sbranate dalla ferocia della «banalissima televisione» (Pasolini, ndr; rileggetevelo un po’ tutto, che non vi fa male, anzi).
Svegliatevi un po’ tutti quanti. Quanto prima.

(da www.wakeupnews.eu)
 

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