Woodstock, 1969. «No rain» divenne un grido melodico che si
poneva come obiettivo principale quello di fare in modo che qualcosa accadesse.
E con quale ferrea e determinata convinzione, poi. Tra fango, acqua, sudore e
sporcizia improvvisa, l’estro di centinaia di migliaia di persone non si
trasformava in odio violento o filosofia risolutiva su conflitti mondiali.
C’era solo l’intenzione, giustificabile o meno, condivisibile o no, di far
tornare in piedi il sole. I posteri, certo, hanno comunque sentenziato, magari
anche a ragione, sull’inutilità di certe soluzioni pseudosociali; se non altro,
resta in piedi la memoria di una delle più grandi dimostrazioni (pur fallite,
in fin dei conti) di intenzionalità, sogno e desiderio realizzabile.
Mondo, 2013. Se un’intenzione c’è, è quella di vendere merce
a buon mercato, anche quando le bancarelle in questione non solo non hanno
pagato il prezzo della locazione ma, per di più, pretendono di vendere
riproduzioni per originali di rarità inestimabile. Deve arrivare un’eminenza
del pensiero artistico-intellettuale italiano del XXI secolo come Lorenzo
“Jovanotti” Cherubini (hai cinquant’anni…abbi la decenza, almeno, di toglierti
quel ridicolo nomignolo da figlio di papà scapestrato) a insegnare Scienze
Politiche per poi metterci in guardia da convinzioni che, evidentemente, non
smettiamo, sì, di far maturare nel nostro grembo morale ma, ahinoi, sulla via
sbagliata. Questo almeno è quello che sembra venir fuori da alcune
dichiarazioni francamente discutibili esternate dal buon Lorenzo durante
un’intervista posta in essere da Massimo Gramellini, bravo vicedirettore del
quotidiano La Stampa.
«Un giorno, in una megalopoli, guardavo con orrore la favela
cresciuta accanto a un quartiere ricco, ma chi era con me disse: crescere con
un quartiere ricco accanto è l'unico modo in cui un ragazzo povero può pensare
di cambiare la propria vita. La vera povertà è sempre povertà di visione». Prima
cosa: Lorenzo caro, forse è ora di cambiare compagnia. Seconda cosa, non senza
affetto: si potrebbe, allora, anche pensare che se un tizio, invece di
allacciarsi la cintura di sicurezza, ne indossasse una di cartone ma disegnata
bene (come ci indottrinarono alcuni artisti del raggiro non molto tempo
addietro), si salva lo stesso la pelle qualora incappasse in un frontale sulla
Salerno – Reggio Calabria? Per cortesia. Ma non fa niente: almeno tu hai ritmo,
mica come Beethoven…e uno come Berlusconi dici che umanamente ti è
simpatico…liberarsene è solo una “partita pop”. Va bene.
Cosimo Fini, poi, noto come Guè Pequeno (ah, i nomi…), un
altro grande genio dell’arte italiana iperimpegnata, leader dei Club Dogo, anche
lui proprio oggi, stavolta a Michele Caporosso di Rockit (che gli concede anche
un bel po’ di spazio e non ne nasconde una certa comprensibilissima venerazione),
ha da dire la sua su come salvare il mondo.
«Che cazzo gliene frega ad un quattordicenne di sentire una
canzone che non lo rappresenta? Invece sente un testo esplicito che nel bene o
nel male gli fa scattare qualcosa». Tranquillo, Cosimo caro: per molti il rap (oltre
a non essere proprio nemmeno un genere musicale; anzi, oltre a non essere
proprio musica) non è poi una così imponente ragione di vita. Non è che chi,
crescendo, finisce per ritrovarsi la cassetta della posta piena di buste verdi
pensa a scrivere o ad ascoltare ad oltranza rime tutt’altro che alla Dante
Alighieri per esprimere un rancore che non riuscirebbe nemmeno a portare avanti
realmente per via di certi morsi di vuoto allo stomaco. Semmai impazzisce
letteralmente e fa fuori qualche povero passante più che innocente, ecco. Occhio
perché poi la colpa la danno a te come “mandante morale”.
Ci sarebbe, poi, anche il dio Celentano con tutti i suoi
sermoni ma, almeno per oggi, è meglio placare qui l’istinto intellettualmente
omicida.
A pensarci bene, ma proprio bene bene, in fin dei conti, non
possiamo neanche rigettare così tanto queste tipologie di comportamento o di pensiero
(per modo di dire) più infantili dell’infantile stesso. Ed ecco un’ipotesi di
motivo: questo “vecchio pazzo mondo” ha bisogno di essere salvato. Dentro,
prima di tutto. Almeno per quello che è veramente possibile, tangibile, a
portata di mano, meritevole di un minimo tocco risolutivo. Per sentire l’appagamento
di un bisogno, si sa, occorre nutrire in sé la certezza di aver risolto quello
che si pone come un problema. Se la soluzione arriva magari anche da frasi
qualunquiste, sostanzialmente insensate, violentemente forse anche giuste o scarne,
elementari, banali o semplici e dirette seppur ben poco costruttive, il risultato
lo si ottiene ugualmente pur non ottenendo un risultato: chi vuole (o chi è
portato a) sentirsi dire che in un certo modo, in un dato momento, le cose si
risolveranno e andrà tutto bene di lì in avanti, percepisce una rassicurazione.
Che non c’è, ma che si è messi, da se stessi, nella condizione di percepire.
Quindi sta bene. Quindi è appagato. Quindi si sente salvato dentro. E intanto
(complice un’arte venduta come arte ma che Arte non è) i governi si alternano, le
soluzioni vere restano un terno al lotto, la propaganda sopravvive, centenaria,
nelle pance della collettività ma i referendum vengono calpestati senza che
nessuno batta ciglio e denigrata resta quella qualunque forma d’arte (che è
Cultura, che è Pensiero, che è Comunicazione, che è Vita) che cerca veramente
di salvarsi e salvare qualche maceria per conto terzi rinnovando se stessa
nell’eterno tentativo di rinnovare le modalità di comunicazione capaci di
fuoriuscire da precedenti linee comunicative prima rosicchiate e poi sbranate
dalla ferocia della «banalissima televisione» (Pasolini, ndr; rileggetevelo un po’ tutto, che non vi fa male, anzi).
Svegliatevi un po’ tutti quanti. Quanto prima.(da www.wakeupnews.eu)
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