venerdì 19 settembre 2014

Giornalismo: il problema, spesso, riguarda le persone (Capitolo II)



Oggi arriva nella mia casella di posta elettronica l’ennesima risposta all’ennesimo annuncio dell’ennesimo giornale online che, per l’ennesima volta, gradirebbe molto i miei servigi dattilografici ma senza versarmi l’ombra di un centesimo in tasca. Molto cordiale, gentile e verbalmente corretto, il tizio (per carità, va detto), ma da bestemmie a reti unificate le solite predisposizioni.
Dunque.

Gentile Dott. Stefano Gallone,
la ringrazio per aver letto il nostro annuncio e mi scuso per il ritardo con cui le rispondo, ma la mail di [nome precedente del sito] non la controllavo da molto. [nome precedente del sito] si è trasformato infatti nel mese di Aprile in un nuovo webzine: [nome attuale del sito], fondato da un gruppo di giovani con l'obiettivo di valorizzare l'arte contemporanea prevalentemente nella zona romana. Le invio il link alle nostre linee editoriali che sicuramente sono più esaustive: [link].
Come avrà visto abbiamo numerose sezioni. Il nostro webzine, ci tengo a precisarlo, è low budget, anzi, lo definirei come un no budget, poiché privo di retribuzione. Instauriamo infatti soltanto delle collaborazioni. Per far parte della redazione Le chiederei di inviarci un articolo di massimo 2500 caratteri su un film recente.
La ringrazio per l'attenzione e Le auguro un buon fine settimana.
Cordialmente
[nome del tizio]

“ […] lo definirei come un no budget, poiché privo di retribuzione. Instauriamo infatti soltanto delle collaborazioni “. Non sapevo che ormai per “collaborazione” si intende direttamente qualcosa di non retribuito. Un po’ come “stage”, insomma. Grandissimo Eduardo, è proprio vero che gli esami non finiscono mai. E non si finisce mai di imparare, eccetera eccetera eccetera. Molto bene. Comunque, siccome a sto giro proprio non riesco semplicemente a cestinare (non per la risposta ma per un po’ di accumulo di stanchezza), rispondo.

Gentile [nome del tizio],
grazie per la risposta ma si tratta di un low budget o no budget, in definitiva? Perché se la collaborazione non è retribuita la ringrazio ma non intendo mandare alcun articolo di prova, anzi comincio a essere molto ma molto stanco e violentemente irritato da una simile condizione, ancor di più dalle solite e inutili giustificazioni che ricevo da un paio di anni a questa parte.
Mi conceda una sola domanda, per mia ricerca personale: se c'è crisi e non ci sono soldi, perché continuare ad aprire giornali online (ma a volta anche cartacei; tutto sommato, più c'è crisi e più ne nascono, chissà come mai) richiedendo collaborazioni gratuite (che poi si trovano sempre, vista l'ingenuità di molti di noi o la semplice necessità di "fare esperienza") e non unirsi in tre o quattro per crescere per conto proprio e poi, soltanto poi, dopo aver instaurato qualche entrata con sponsor e Adsense, cercare qualcuno a cui, però, fornire qualche soldo (non ritenute d'acconto, soldi) in modo da avvalersi dei suoi servizi?
Grazie a lei.
Saluti

Mentre attendo una risposta guardo altri annunci e trovo sempre e solo le solite parole chiave, sintomo di contrattacco a qualsivoglia richiesta di retribuzione a suon di gesto d’ombrello: “Siamo alla ricerca di giovani motivati da una grande voglia di cimentarsi con il giornalismo”; “i requisiti per collaborare con noi sono essenzialmente due: impegno e spirito di iniziativa”; “cerchiamo aspiranti giornalisti”…e comincio pure a sospettare che trovare il semplicissimo link “lavora con noi” su una testata online sia sintomo di richiesta in ginocchio come a dire “ti supplico vieni da noi pure si nun c’avemo gnente da datte”. Nel frattempo mi risponde anche un altro: “Buongiorno, per quel che riguarda le modalità di collaborazione si tratta della redazione di 4-5 news giornaliere in ambito principalmente calcistico, a riguardo riceverà ulteriori dettagli nel caso in cui la collaborazione andasse in porto. Dal punto di vista economico al momento non è prevista retribuzione diretta da [nome sito] ma diamo la possibilità di utilizzare i propri banner pubblicitari (es.: Google Adsense, JuiceAdv etc) e dunque monetizzare a seconda delle performance degli articoli”. Ma metti per iscritto “cerco pr”, fai prima. Si parla anche di “performance” degli articoli, ormai. Delete.
Poi arriva la risposta del tizio di cui in principio.

Gentile Stefano,
è nella speranza di tutti noi che [nome sito] si possa trasformare in una realtà retribuita. E oltre a esser una speranza ciò è soprattutto un obiettivo condiviso da tutti. Il nostro webzine punta prevalentemente su una realtà ben precisa, quella del contemporaneo, che viene poco indagata ed è poco pubblicizzata. Trovare sponsor non è semplice e "imbrattare" il giornale con pubblicità poco interessanti non è nella nostra politica. L'idea di aprire un giornale online ci è venuta proprio per plasmare questa nostra progettualità che, si fidi, ha bisogno di lavoro, tempo e abnegazione, cose difficilmente riscontrabili nella maggior parte delle persone. Capisco il suo stato d'animo e la sua stanchezza, capisca però anche il nostro punto di vista: non è un mero tentativo di cambiare il mondo, ma semplicemente il bisogno di dar voce, attraverso la nostra passione, a ciò che voce, nella maggior parte dei casi, non ha. Siamo nati con questa passione e ci auguriamo che ciò possa avere anche una retribuzione. Ci tengo a sottolinearLe che anche i cosiddetti "quadri dirigenziali" di [nome sito] non hanno una retribuzione (me compreso); questo forse le farà capire, oltre la bontà del progetto, la nostra volontà di non lucrare sul tempo e lo spirito del singolo redattore poiché i primi a faticare siamo noi stessi. Dimenticavo, le spese di gestione del sito sono a spese del "quadro dirigenziale"… sperando di esser stato esaustivo la ringrazio per la sua attenzione.
Cordialmente
[nome]

Risposta più che soddisfacente, cordiale e gentilissima. Peccato solo (e glielo dico in risposta ringraziandolo per la disponibilità e salutandolo) che la danno veramente in tanti (direi anche troppi). Allora le cose sono due, gli dico e chiedo anche a te che leggi: o c’è veramente una prospettiva di monetizzazione concreta per quanto piccola e a lungo termine, o è una specie di frontiera diventata il sogno di tutti nella speranza che si renda visibile e oltrepassabile senza indugio ma, ahimè, senza nemmeno una particolare visione tangibile.

P.s: ieri un mio collega / amico ha ricevuto per posta (non per mail, per posta; anche se in netto ritardo ma, sai, le Poste italiane, ultimamente, non sono proprio sinonimo di magia del savoir faire logistico) una risposta da parte di un ben noto quotidiano cartaceo nazionale al quale aveva lasciato un curriculum. Malgrado una considerevole scarsezza di simpatia per il suo capoccia, a onor di cronaca va detto che hanno risposto così (ripeto: per lettera postale, non per e-mail):

Egr. Sig. [nome del collega / amico con indirizzo], con riferimento al Suo curriculum vitae, La informiamo che al momento la nostra azienda non ha in previsione l'ampliamento del suo organico. Terremo comunque presente la Sua candidatura e sarà nostro scrupolo informarLa delle eventuali relative opportunità. Distinti saluti [dati e firma dell'ufficio personale].

(Nell'immagine iniziale, il genio di Zerocalcare: www.zerocalcare.it)





martedì 16 settembre 2014

Giornalismo: il problema, spesso, riguarda le persone



A Luglio mi sono laureato. E sì, eh, certe cose succedono anche a me, mica sempre e solo ai soliti “sparamambitto” che fanno otto esami a sessione e si laureano un anno e mezzo prima senza averci capito un benemerito cazzo. 109 su 110, se lo vuoi sapere. Arti e Scienze dello Spettacolo. La Sapienza di Roma. Cinema. Sì, rosico un po’ ma alla discussione mi hanno dato il massimo e parevano interessati. Forse. Cinema e Apocalisse, l’argomento. Bello e intenso, il processo di elaborazione e produzione della tesi, sì. Bravissimo il mio relatore. Una chiavica l’università in sé, che spero fallisca e crolli al più presto.
Dicevo, a luglio mi sono laureato e, a cominciare dalla fine del mese fino a questo preciso istante inoltrato, mi sono messo (e continuo) a cercare lavoro. Tecnicamente sarei giornalista pubblicista con tanto di tesserino e iscrizione all’Ordine (va bene, fattela pure tu sta cazzo di risata…ecco…contento? Bravo coglione), quindi, sai com’è, si cerca un po’ nel proprio settore prima di andare a bussare ai call center (e fatti pure st’altra risata…imbecille). E allora (sempre e comunque dopo aver girato praticamente tutte le redazioni maggiori, tra Roma e Milano, per rilascio curriculum e documenti vari: alcuni gentilissimi, altri da fucilare all’istante), giù con risposte ad annunci italiani di vario stampo provenienti dall’oceano putrefatto della rete. Un paio di volte mi è capitato di vedere qualcosa dalla Svizzera. Oltre ad aver caricato a ufo il curriculum sul sito della Rts (così, tanto per), avevo risposto a non mi ricordo nemmeno più io quale annuncio, consapevole di non avere almeno uno o due requisiti richiesti ma vabeh, intanto ci si prova. Sarà stato poco dopo ferragosto, se non ricordo male. Fatto sta che oggi, signore e signori, da questi svizzeri qua mi arriva questa splendida mail di risposta (non scherzo e non sono ironico, è veramente splendida):

Gentile signora, egregio signor [vabeh, concediglielo pure un copia/incolla per fare prima dimenticando di cancellare il sesso non corrispondente, fa niente],
la ringrazio sentitamente per la sua candidatura e per l’interesse dimostrato verso l'attività svolta dal [nome società che non è corretto fare in pubblico].
Tra le 350 candidature ricevute in risposta al nostro annuncio abbiamo scelto 5 candidati da invitare ad un colloquio. Purtroppo la sua candidatura non soddisfa pienamente uno dei requisiti da noi richiesti (ottima padronanza della lingua tedesca, esperienza nella produzione di film e video
[che non è vero, in passato ne ho fatti un po' ma vabeh, stiamo mica qui a contare i peli dell’orifizio anale dell’orso Yoghi], comprovata esperienza giornalistica con una buona rete di contatti nella Svizzera italiana).
La sua eventuale delusione è senz’altro comprensibile, soprattutto in ragione del fatto che non le viene data nemmeno l’opportunità di un colloquio. Anche se la nostra politica, in genere, si discosta da quella di altre imprese, ci accomuna sfortunatamente l’oggettiva difficoltà, per mancanza di tempo, di invitare tutte le candidate e tutti i candidati a un colloquio personale. La sua esclusione a tale fase non intende essere un giudizio di valore sulla sua qualifica. La preghiamo di comprendere che spesso sono solo piccole sfumature a fare la differenza.
Non esiti a ripresentarci la sua candidatura qualora veda pubblicata sulla nostra homepage
[sito] un’altra posizione di suo interesse.
Cordiali saluti
[Nome del tizio che ha scritto. Nome sostanzialmente tedesco. Che mi scrive in questo italiano così corretto].

Ecco…
…mi viene da pensare di primo getto: svizzeri, quindi persone serie anche (se non soprattutto) nel mio settore (mentre tutti noi stronzi, qui, stiamo ancora a spalare la merda con la storia trita coglioni dell’internet-non-internet-manellacartastampataèdiverso-ilgiornalismoèmortoepureigiornalistisonomorti-cisonosoloblogschifosienongiornali), encomiabili anche quando ti rifiutano perché ci tengono a specificare che non sei tu ad essere una merda inutile, sono loro che cercano altro e ti incoraggiano a tenere comunque vivo un mezzo contatto. Poi rileggo la mail una seconda volta e mi viene soltanto da riflettere sul fatto che mi ritrovi stupito di una risposta così cordiale, gentile e comprensiva, cosa che, in fin dei conti, dovrebbe essere la normalità più assoluta qui attorno a me e che, a quanto pare, in questo cesso di posto dove stiamo noi, non è mai stata proprio una specie di usanza, perché se no pare brutto.
E allora mi tornano alla mente tutti gli incontri e le risposte del cazzo più recenti avuti (i primi) di persona (pochissimi, la verità) e (le seconde) sulla mia fottuta mail bypassata da siti di pubblicità, truffe a nome di Poste Italiane (che, ovviamente, di Poste Italiane non sono), annunci porno e richieste di aiuto economico farlocche con nomi supercazzola e in linguaggi prossimi a un Google Translate affetto da Encefalopatia Spongiforme Cibernetica. Avessero mai avuto almeno un briciolo di una simile predisposizione, tutte quelle merde con cui sto avendo a che fare nella ricerca di un semplice lavoro ormai diventato un fottuto hobby del cazzo nell’unico neurone di alcuni (parenti e qualche amico, in particolare. “Ah…ok…e che lavoro fai?”. Faccio rapine in banca con tua nonna che mi paga a colpo di pistola esploso, stronzo). Me ne sovviene qualcuno in particolare.

Ho anche esperienze radiofoniche, sia come autore che come speaker e producer, quindi noto in rete un annuncio di due righe, due di numero, che pare faccia capo a una radio fm di Roma. Niente nomi né indirizzi mail ai quali poter mandare un curriculum. Solo un numero di telefono cellulare. Vabeh. Finito di guardare e rispondere agli altri tre o quattro annunci che ho aperto in apposite finestre sullo schermo, prendo il telefono, compongo il numero e parte la chiamata.
“Prooontooo…” (con inflessione a mo’ di scimmione della pubblicità del Crodino. Hai presente?).
“Ehm…sì, buonasera. Ho visto proprio adesso il vostro annuncio e volevo sapere, un po’ più nel dettaglio, di cosa si tratta, in cosa consiste il lavoro.”
“Eh. Embè? Perché? Nun sai legge? Che ssei cecato?” (stessa e identica inflessione che manterrà per tutta la conversazione, con picchi di aumento fonico alla Pasquale Casillo).
“…sssssì…beh, c’è scritto speaker o dj.”
“Eh.”
“Sì, beh, io sono giornalista pubblicista, critico musicale e cinematografico, laureato, iscritto all’albo…[eccetera eccetera eccetera]. Avendo anche esperienze radiofoniche sia come autore e producer che come speaker radiofonico, nonché approfondite conoscenze musicali senza limiti di genere, volevo sapere se c’era possibilità di collaborazione, stage o qualunque altra cosa anche solo a livello giornalistico presso la vostra redazione, ecco.”
“Co’ cche rradio ‘a lavurato, te?”
“Ho lavorato e lavoro ancora per una webradio [nome] fondata da me prodotta dal giornale per il quale collaboro da 5 anni. Prima ancora la nostra direttrice conduceva una trasmissione presso una radio italiana di New York [nome] che ha anche ritrasmesso la prima stagione della trasmissione che invece ho fatto io. Abbiamo una specie di partnership e collaboriamo spesso per…”
“Nun ‘a conosco.”
“Vabeh, è legittimo”
“E comunque  ‘e uebberadio nun so rradio.”
“Come, scusi?”
“Nun conta gnente, nun ‘e na radio.”
“Guardi che tutte le ritrasmissioni ad opera della radio italiana newyorkese erano anche in Fm. Negli Usa, per giunta.”
“Nun significa gnente, nun è na radio”
“Vabeh. Senta, scusi, non mi vuole dare nemmeno un indirizzo postale o mail al quale poter mandare un curriculum in modo da poter…”
“Ma nno, perché nun è  na radio, nun è n’esperienza, ‘e uebberadio nun so rradio [e attacca una filippica di almeno tre o quattro minuti sul senso del concetto di radio per un coglione, che io ascolto col sangue agli occhi solo per lasciarlo finire perché poi quella merda dice] “Comunque, sì pproprio ce tieni, poi pure venì qua, te mettemo a sede ar tavolino e vvedemo che ssai fa.”
Al che rispondo:
“No. Non mi meritate.”
E gli attacco il telefono in faccia. Perché in questa fase della mia vita sto mandando a fare in culo veramente tante persone senza pensarci mezza volta in più. Una terapia che consiglio vivamente a tutti voi quando necessario, vale a dire in casi come questo.

Altra esperienza interessante.
Rispondo a un annuncio online che ancora oggi circola con pressante insistenza su qualunque sito di ricerca lavoro. Si tratta di un sito internet che pare faccia sia un pizzico di giornalismo che, in maniera più corposa, web tv. Dopo un po’ mi ricontattano per invitarmi a un colloquio conoscitivo, sempre qui a Roma. Dico grazie e il giorno dell’appuntamento mi presento in tranquillità ma consapevole della facile eventualità di non ricavarne niente di buono, quindi self control ben collaudato.
Entro in questo bel portone di un certo punto di viale Marconi e la portiera, gentilissima, mi indica la porta della società. Busso, entro, saluto, ricambiano e mi mettono a sedere su un piccolo divanetto per attendere che il capoccia finisca un altro colloquio fissato prima del mio. Mi trovo in un vero e proprio appartamentino, comodo, confortevole, con due persone vicino a me (una giovanissima segretaria e un ragazzo forse mio coetaneo che si occupa dell’area giornalistica da direttore, dice. O caporedattore, non ricordo bene). Il capoccia generale, nel suo studio alle mie spalle, finisce il colloquio con una ragazza che se ne esce sorridente. Entro io, saluto, mi accomodo. Mi accomodo, sì, ma ad una scrivania alquanto distante a una seconda dietro la quale sta seduto lui. Mi annuso distrattamente le ascelle per vedere se il motivo per cui mi tiene distante è perché potrei puzzare ma vabeh.
Mi comincia a parlare forte del suo baffone e di una maggiore tranquillità conferitagli dal fatto che siamo quasi conterranei. Mi comincia a parlare forte del suo baffone ma partendo da un discorso di massima legato all’impossibilità di portare avanti carriere giornalistiche al giorno d’oggi, della necessità di mettersi in rete ma del contrattacco lanciato dall’impossibilità di pagare i collaboratori pur necessitando della loro fervida collaborazione “acca ventiquattro” per crescere e sperare in remunerazioni che mettano qualcosa in tasca a tutti. Allora lo fermo e chiedo se, quindi, non è prevista alcuna retribuzione. Il buon uomo riparte con altre supercazzole sulla crisi di sto cazzo e bla bla bla.
Mentre quello parla e io manco lo ascolto più, mi guardo un po’ intorno con la coda dell’occhio: ho di fronte una sorta di sosia del “cumenda” Guido Nicheli, solo in versione napoletana; mi trovo in una redazione fisica, ancora semi vuota ma fisica, arredata anche bene, per la quale questo qui paga un certo affitto (lo ha detto lui). Quindi qualche soldo circola sicuramente. Sono tre mesi che vedo questo annuncio imperare sulle bacheche dei siti di ricerca lavoro, quindi staranno ancora lì, avranno pur trovato qualche fesso di turno che deve solo fare esperienza. E se stanno ancora lì, ma non pagano, verseranno comunque certi soldoni (che quindi hanno, o lui personalmente ha) per mantenere l’affitto dell’appartamento adibito a redazione (che piccolo piccolo proprio non era) e pagare le rispettive bollette (per non parlare poi della manutenzione dell’attrezzatura buona che hanno ma che chiedono a te di avere per conto tuo). E a Roma sai bene che gli affitti sono qualcosa di improponibile per una miriade di comuni mortali.
Per farla breve, quando questo finisce di sparare supercazzole io comincio a dire cose del tipo “ma allora, se è crisi, perché buttarsi a elemosinare compassione e lavoro gratuito? Non è meglio trovarsi un lavoro qualunque per conto proprio senza farla campare di rendita, sta crisi?”, oppure “ma lei lo sa che (certo non è il massimo) ma è anche possibile mantenere una mezza redazione anche senza un appartamento in affitto? Quindi se può pagare un affitto con relative bollette e condominio, perché non può pagare due soldi a chi accetta di lavorare con lei?” (l’uomo dice che almeno qualche ritenuta d’acconto per il tesserino si sarebbe spremuto per pagarla). O ancora “se proprio non si può o non si vuole pagare chi lavora per te, allora perché non cominciare a fare la tanto sospirata ‘crescita’ da soli in quattro o cinque per conto proprio per poi raggiungere un certo status di entrate sponsor e Adsense e offrire, solo dopo tutto questo, uno sputo di lavoro con qualche spicciolo a disposizione? Noi con il nostro giornale, ad esempio…”. Non l’avessi mai detto. Non avessi mai accennato a come tiriamo avanti (con pochissimi soldi, praticamente niente, ma almeno dignitosamente) noi al giornale online dove sto io. Morale della favola, il colloquio è finito con lui che elemosinava a me una partnership col mio giornale. Patetico.

Per finire, quanto alle risposte mail di annunci nei quali non si parla di retribuzione manco se viene la missione, c’è una certa forma standard (che molti di voi conoscono anche bene) che ti arriva nella casella di posta quando il cosiddetto datore di lavoro (parolone, sia “datore” che “lavoro”) si degna di risponderti, cioè solo nel caso in cui, consapevole di non volerti dare un cazzo (potrebbe anche, qualche spicciolo, ma preferisce molto spesso non volere e papparsi lui la poca brodaglia che riceve), gli serve come il pane azzimo qualcuno che si faccia il culo per far crescere lui e il suo sito schifoso. Fa pressappoco così:
“Gentile Stefano [o chiuque altro],
la ringraziamo per la sua candidatura e saremmo lieti qualora lei volesse collaborare con [nome sito]. Quanto alla sua richiesta di retribuzione, sa bene che le attuali premesse storiche non ci consentono di offrirle una regolare retribuzione ma ci permettono, altresì, di optare per la formula attuale più risolutiva, vale a dire quella del giornalismo partecipativo…” e continua con una sfilza di altre intramontabili supercazzole utili a proporre, in linea di massima, a colui che dovrebbe semplicemente scrivere, studiare, valutare, approfondire (o quanto altro di simile), di diventare una sorta di fottuto pr facendo stalking in giro per la rete a sputtanare i suoi articoli di merda per fare migliaia di viscidi clic da sprucido social network che finiranno per valere si e no un paio di euro (ad andare bene) dopo varie ore di sottomissione da schermo elettronico grazie a una moltitudine di banner pubblicitari che lui stesso dovrà gestire. E si pavoneggiano anche di una certa meritocrazia (nominano proprio questo termine) che solo loro vedono nella cosa.

Morale della favola: sarò drastico, disinformato o quel cazzo che volete, ma per quanto mi riguarda la nostra vera crisi è quella interiore. Il problema sono e resteranno sempre quelle persone che invece di risolvere il problema ne creano consapevolmente e deliberatamente altri (perché tanto basta solo un’iscrizione a un tribunale per essere “in regola”), talvolta più grandi ancora, e si crogiolano sulle inadempienze psichiche altrui, vale a dire quelle di chi accetta un simile scempio pur di sperare in qualcosa finendo per essere spesso anche sopravvalutato quando i suoi temini di terza elementare vengono fatti passare per articoli pur di buttare qualcosa sul sito, con la paura fottuta (esattamente come a scuola o all’università) di inimicarsi chissà chi mandandolo semplicemente a fare in culo. Il tutto coadiuvato da un mezzo fenomenale (internet) usato per il 75% nella maniera più schiavista e retrograda possibile (sia come non-lavoro che come “contenuti”). Basta oltrepassare un qualunque confine fisico per vedere che le cose, nel resto di una buona fetta di mondo, non stanno così e tutto è ben più possibile, legittimo e rispettoso delle circostanze? Sì e no, perché anche in questo posto maledetto ci sono moltissime persone di esimio calibro educativo che devono essere necessariamente preservate, costi quel che costi.
Ad ogni modo spero che tutto il peggio espresso fin qui (ma anche tanto altro) finisca. E nel peggiore dei modi, se necessario. La colpa, tutto sommato, sarebbe solo di qualche centinaio di vaffanculi finalmente espressi.

giovedì 11 settembre 2014

Gli U2 e Apple non hanno inventato proprio niente. Ecco perché

Fai vedere. Gira un po' sta faccia. Ah, ma anche tu sei costernato dalla incredibile scelta innovativa di Bono Vox e soci in associazione con iPhone, Apple, cazzi e mazzi, di far uscire il disco nuovo in digitale e sbatterlo per il mondo a costo zero! Orsù, ripigliati perché qua non c'è da scandalizzarsi o meravigliarsi proprio di un bel niente: centiniaia di migliaia di band lo fanno da anni su Soundcloud, Bandcamp e affiliati (tra cui pure io con gli Agate Rollings, vah). C'è di mezzo solo una oceanica dose di popolarità in più. Embè? La novità vera e propria dove sta?

Di certo ha ragione Michele Monina de Il Fatto Quotidiano quando reputa geniale una simile trovata (comunque di impatto storico), laddove il fattore "geniale" va inteso in rapporto a una quantità non indifferente di trogloditi che preferisce spendere (spesso per un disco che ha già e che vuole risentire immediatamente mentre si sta facendo fare un massaggio cinese completo con gran finale) dieci o più euro in mp3 da telefono cellulare dirrettamente connesso ai vari store digitali pur di non intasare la lussuosa casa (percaritadiddio!) di inutili oggetti circolari, grandi o piccoli che siano. 
Monina, giustamente, dice: "Nell’epoca in cui il prodotto vince sul marketing, loro hanno deciso di finire direttamente dentro il prodotto". Sta bene, è proprio così se intendiamo l'evento esclusivamente dal punto di vista del merchandising tecnologico. Ma...

...ma la Musica? Quella dove la mettiamo? Siamo sempre alle solite, insomma.

Monina ragiona saggiamente anche quando dice: "Da che quasi una quindicina d’anni fa, il classico ragazzetto in un garage americano ha pensato che i file musicali si potessero, in quanto file, condividere in rete, dando vita al file sharing, con Napster e con tutto quel che è seguito, la musica ha subito una rivoluzione che, a parere di chi scrive e non solo, ha precedenti solo nell’opera di Guido d’Arezzo e poi nell’attimo in cui qualcuno ha pensato che la musica poteva essere incisa e riprodotta meccanicamente. Da quel momento, infatti, il cambio di fruizione della musica, MP3 assurto a eroe di questa storia, ha sconvolto tutto. Non ho spazio a sufficienza per raccontarvi quel che è successo negli anni zero e in questa decade, ma voi ci siete e lo vedete coi vostri occhi. Oggi la musica si ascolta prevalentemente con gli smartphone, dopo un passaggio veloce dentro gli iPod (ricordiamo che dieci anni fa furono proprio gli U2 a pubblicizzarli) e simili, e se ne ascolta talmente tanta e confusamente da aver ridotto l’oggetto del contendere, la musica, poco più che uno sfondo insignificante, dettaglio minimo nel panorama d’insieme. Non è un caso che dopo decenni in cui si susseguivano rivoluzioni musicali, dal rock’n roll, al rock, al punk, all’hip-hop, al grunge, e sicuramente salto qualcosa, oggi si parli più di supporti che di contenuti".

"Il disco è morto", ci ripete sempre Cristiano Godano dei Marlene Kuntz ad ogni sacrosanta intervista. E come dargli torto? Sì, è esattamente così, ma sempre calcolando la questione in rapporto alla percentuale di imbecilli che si sparano le pose col macchinone e lo stereo col subwoofer alla cazzo di cane che ti ammazza i bassi rendendoli nient'altro che incomprensibili percussioni stomacali che solo il coglione di turno può sopportare, giammai comprendere, decifrare e trasformare in percezioni di note musicali. 

Gli U2, la Apple e qualunque altro gesucristo ci sia appresso, caro mio, non hanno fatto altro che seguire l'onda arrivandoci prima di qualcun altro (dirai "e hai detto niente" e va bene). Hai una vaga idea di quanto possano aver comunque preso da Apple o chicchessia per la diffusione gratuita del disco? Non ne parliamo che se no ci stramazziamo di crisi esistenziali.
Gli U2 sono solo riusciti a stipulare un accordo comunque redditizio per fare quello che molti meravigliosi siti internet fanno da tempo incalcolabile, guadagnando qualcosa illegalmente, forse, solo attraverso banner rompicoglioni e Google Adsense. Solo che quello è illegale e va condannato a morte per direttissima e senza processo anche se diffonde roba buona per il bene del sapere altrui (sul cinema, poi, c'è un altro paio di maniche molto divertente), mentre questo rientra nella norma perché frutta al signor ambasciatore della beneficenza di sto cazzo (che l'ultimo disco bello l'ha fatto nel 1997 e sono stato buono) un mucchio di soldi che, a confronto, Bill Gates pare un clochard, ma (percaritadiddio!) stimola i comuni mortali ad apprezzare musica differente e di qualità a costo zero (sai che risate se poi il disco è una cagata immonda? Naturalmente spero che almeno questo non lo sia, anche se già alcuni amici, puristi della band irlandese, mi avvisano dell'esatto opposto). 
Gli U2, amico caro, non hanno inventato proprio niente, hanno soltanto aggirato le reali colpe del settore. Quali colpe? Queste sulle quali riflettevo il 21 genaio 2011 attraverso le pagine di www.wakeupnews.eu: 

"Roma – Dati Ipsos derivanti da un’indagine svolta nella capitale, relativamente al download di materiale cinematografico, sentenziano un dato di fatto inequivocabile: nel corso dell’anno 2010, il 37% della popolazione italiana ha preferito usufruire di pirateria online, incentivando, di questo passo, la decrescente produzione e distribuzione di pellicole in sale cinematografiche in potenziale via di scomparsa per mancata disponibilità a sostenere i costi di manutenzione e rinnovamento. In aumento del 5% rispetto al 2009, il “file sharing” selvaggio ha portato la Federazione Anti-Pirateria Audiovisiva, in conferenza alla Casa del Cinema di Roma, a contare 384 milioni di atti mediaticamente spesso giudicati come vandalici (30 milioni in più rispetto ai precedenti rilevamenti). A subire i maggiori danni sono stati la vendita (150 milioni) e il noleggio (130 milioni). Le sale cinematografiche, in più, contano circa 100 milioni di negativo in bilancio. L’età media degli utenti in download varia tra i 15 e i 34 anni. I tre quarti di queste persone è, tra l’altro, perfettamente a conoscenza di aver compiuto quello che viene giudicato un reato (applicando la legge materiale ad un concetto immateriale di linguaggio binario; ci sarebbe anche qualcosa da dire su questo, volendo).
C’è da considerare, però, che non rimane affatto da escludere il versante musicale, dove, anzi, le cifre risulterebbero probabilmente astronomiche. Il dramma principale, per contro, rimane un altro (forse ancora più importante): nessuno si chiede mai il motivo delle preferenze di download rispetto alle decrescenti vendite legali, preferendo puntare il dito contro l’utente di turno facendogli anche il gesto delle manette. Ipotizzare qualcuno di questi motivi non è un reato nè una bestemmia.
In primo luogo, ovviamente, il risaputo ed inaccettabile prezzo standard (a volte incrementato per motivi futili di grafica o edizione limitata di poco conto) ai limiti del digeribile per un portafogli nazionale sempre più vuoto. In questo ambito, infatti, giudicando musica, cinema e, perché no, anche letteratura come un lusso e non come fonte dissetante di cultura, nessuno si è preso la briga di guidare l’attenzione degli utenti del web sui negozi online come Play o Amazon, dai quali (specialmente per quanto riguarda il primo dei due, e non è affatto pubblicità) è possibile ordinare i dischi di nuova uscita ad un prezzo da grossista completamente dimezzato (in genere sui 12 euro, contro i 20 in media di un cd fresco di stampa) e, talvolta, senza alcuna spesa di spedizione (in questo play è paladino, pur avendo come fulcro di distribuzione il Regno Unito: consegna entro una settimana). Lo stesso, ovviamente vale anche per i dvd, anche se un sonoro monito va rivolto anche alle sale cinematografiche che si fanno pagare 7 o 8 euro lo stesso film passato il pomeriggio a 5 solo perché si tratta della visione serale.
I motivi per cui comunque un’ampia fetta di popolazione appassionata predilige il download a caimano restano comunque legati a relative difficoltà di reperimento online per purissima pigrizia ed inettitudine tutta italiana (anche se basterebbe una Postepay ricaricabile e un paio di istruzioni elementari; ah, dimenticavamo: a volte sono in inglese, è un trauma). Ma non è da sottovalutare anche (o forse soprattutto) un continuo e consapevole movimento di boicottaggio delle multinazionali sia di distribuzione che, soprattutto, di vendita (i megastore, in aumento come funghi anche nei piccoli centri urbani). Un eventuale senso di colpa da parte di questi ultimi, evidentemente, esiste e si manifesta nella scelta (non è un’accusa, è una constatazione) di Feltrinelli, Fnac e Ricordi Media Store, ad esempio, di svalutare soprattutto cd e dvd portandoli a prezzi mai visti nè immaginabili prima: dischi di artisti di fondamentale importanza come John Mayall, Nick Drake, Rober Wyatt, Animals, Ramones, Roger Water, Caravan, Camel, Paul Weller, Marvin Gaye oltre a tanti altri, incluse intere ordinazioni di cataloghi jazz (Ornette Coleman, Herbie Hancock, Thelonious Monk, Bill Evans, Sonny Rollins, Michel Petrucciani, Coleman Hawkins, Lester Young) spesso e ben volentieri non superano i 5,90 euro a pezzo (in alcuni cofanetti onnicomprensivi è possibile pagarli anche meno).
L’impressione che, per i venditori, la responsabilità dell’aver aperto il campo al download selvaggio sia giustificabile con la scelta fondamentale (il taglio netto di alcuni prezzi) ma estremamente ritardata nel contrastare l’ondata di pirateria, ormai in così ampia diffusione da non poter essere arginata nella sua totalità, sembra non essere affatto infondata. Ad ogni modo, nessuno, ai vertici delle istituzioni, si è mai e poi mai preso la briga di considerare la potenziale utilità (fatta eccezione dell’onnipresente malafede umana) della rete come strumento di conoscenza: migliaia di appassionati di buona volontà, infatti, chissà per quale motivo riescono spesso ad effettuare comunque in anteprima il download delle nuove opere dei propri beniamini (chissà chi le carica sul web: sospetti bazzicano attorno alle stesse etichette soprattutto discografiche per una sorta di controboicottaggio da incastro; ma sono solo sospetti, è chiaro) scegliendo comunque, poi, di acquistare l’oggetto, anche nelle edizioni limitatissime (con oggetti, fanzine o materiali inediti vari) che le case di produzione si sentono in dovere di produrre, a prezzi quasi stellari, pur di vendere qualcosa. Si considerino, inoltre, le altrettante migliaia di utenti (sempre appassionati) che solo ed esclusivamente attraverso il download gratuito riescono a conoscere e ad apprezzare nuovi artisti (audio o video) che altrimenti non avrebbero avuto l’opportunità di testare non avendo a disposizione patrimoni monetari sufficienti per ascoltare o vedere tutto ciò da cui si viene attratti. Se si lasciassero passare almeno questi due ultimi e preponderanti punti, probabilmente si arriverebbe ad un buon accordo tra le parti. Ciò non potrà mai avere luogo laddove le major di produzione e distibuzione scelgono di continuare, imperterrite, a fingere un simile accordo imponendo i download a pagamento, pura forma di pirateria autorizzata: pagare per avere comunque un cd masterizzato. Il colmo. O no?"