mercoledì 30 settembre 2009

Porcupine Tree - The incident


Li aspettavamo, senza dubbio. Almeno noi devoti alle polimorfe creazioni del signor Wilson, almeno noi legati così saldamente ad espressioni liriche e musicali che faticano a distaccarsi eccessivamente da una considerazione spirituale della musica intesa in senso generale. Abbiamo trascorso notti insonni cullati dalle carezze psichedeliche dell’etereo “The sky moves sideways”, abbiamo assaporato il gusto della melodia e della sensibilità armonica più pura e semplice, ma al contempo diretta al cuore e all’anima, di piccoli gioielli come “Lightbulb sun” e “Stupid dream. E, perché no, abbiamo ruggito all’unisono con i graffianti riff e gli apocalittici concetti espressi da veri e propri requiem alla coscienza civile come “Deadwing”, “In absentia” e “Fear of a blank planet”. Ebbene, ora siamo di fronte a qualcosa che, di primo acchitto, ci sembra davvero quanto di più complesso e grande il nostro amato Steven avesse mai potuto regalare a questi animi sempre così instabili, sempre così speranzosi in non si sa mai bene cosa, sempre così incessantemente alla ricerca di qualcosa che parli di noi, che ci prenda per mano e che ci permetta di esorcizzare almeno parte dei nostri demoni quotidiani.

E allora ci si chiede: cosa succede quando un disco (così come un film o un libro) riesce a toccarti davvero dentro? Cosa si smuove tra le viscere della nostra anima quando suoni e parole ci trasportano in un groviglio di sensazioni che non ci risultano poi così estranee? Ma, soprattutto, cosa succede quando una qualsiasi opera parla di noi dal primo all’ultimo tassello che la compone? Si tratta di ciò che è effettivamente accaduto al sottoscritto assaporando la magistrale ingegneria sia sonora che emotiva del nuovo lavoro della band londinese.

Ad un primo approccio, non sembra essere ben chiaro a cosa possa riferirsi un titolo così semplice. “The incident” potrebbe far pensare, immediatamente, ad un incidente stradale più o meno grave (ed è comunque il pretesto dal quale mr. Wilson trae spunti per un discorso ben più ampio e trascendente). Con il termine “incidente”, però, ci si può riferire, ovviamente, ad una vastissima gamma di opzioni significanti. Quella più plausibile, passando in rassegna i versi di questo meraviglioso concept, anche se non dotati di una perfetta conoscenza della lingua inglese, sarebbe l’ipotesi del cosiddetto “incidente di percorso”, giro di boa dell’esistenza terrena di ogni individuo in quanto tale e periodo di trapasso morale fondamentale per la maturazione di un essere umano, insieme irregolare di stati d’animo, pensieri e sensazioni ostacolanti che rendono necessario il suo superamento, con qualsiasi mezzo, allo scopo di trovare, una volta per tutte, il riflesso di se stessi, la propria ultima e definitiva personalità.

La copertina, di per sé, già si impegna ad esprimere una situazione, credo, di autodifesa: porre una mano tra le proprie sembianze e un fuori campo ignoto e, proprio per questo, spaventoso, inquietante. Apriamo la custodia: contiene due dischi. Il primo è quello che più ci interessa: contiene i quattordici brani in cui è divisa questa suite ultraterrena dai contenuti sovrumani. Il secondo è una sorta di ep con quattro brani: una sottospecie di “Nil recurring” incorporato, vista anche la caratura progressive dei brani che lo costruiscono. Prendiamo il primo disco e lo infiliamo nel lettore. Play.

La sensazione più incredibile è quella di vedere costruirsi davanti agli occhi, specialmente tenendoli chiusi, un vero e proprio film. Anzi, una fattispecie di montaggio unico di filmini in super 8 fatti in casa. Tiriamo un sospiro. Teniamo gli occhi chiusi. Lasciamoci andare.

Ouverture “Occam’s razor”. Un unico accordo duro e oscuro, seguito da un grappolo di elettroni fluttuanti (un saggio Richard Barbieri), fa da Caronte in un mondo tutto interiore, fatto di esperienze vissute e da vivere, di prove da superare con qualsiasi risultato, di responsabilità da prendere per crescere dentro se stessi e con se stessi.

Inizia la sinfonia autoesaminante. “The blind house” potrebbe, senza dubbio, essere il frastuono attraverso il quale ci sembra di conoscere noi stessi e non si fa caso ai fossi e alle strade dissestate che si prestano dinanzi a noi lungo un cammino fatto di sogni e desideri da realizzare ad ogni costo. Il doppio pedale del metronomo Gavin Harrison mi ricorda quanto soffro di tachicardia al solo ricordo di un trauma subito, un po’ come soffre l’alter-ego Laura Dern quando deve necessariamente “sciogliere” una volta per tutte il suo demone maggiore in “Inland Empire” di Lynch. “The world outside corrupts my child”, mi dice Steven; e condivido, per tutte le volte che ho odiato un atteggiamento, un discorso senza un senso al di là dell’espressione più ignobile di sentimenti mercificati e svenduti in saldo al primo offerente. “We resist, all this shit, so kneel submit”: per tutte le volte che ho chiesto scusa anche quando non avevo torto, per tutte le volte che, in ginocchio, ho chiesto all’aria lo scopo dei miei giorni e le finalità primarie delle mie povere gesta. Sarà giusto quello che sto facendo? Ne vale davvero la pena? È esattamente il risultato di quello che sono? Poche risposte. Quasi nessuna. Nella casa cieca dentro la tua anima, ti dice, “You don’t need to know their secrets, believe me”: non hai bisogno di capire perché tutti ti vedano come un estraneo per il tuo semplice desiderio di ricerca di sentimenti veri e genuini, per la tua frenetica voglia di capire come stanno davvero le cose e prendere una posizione definitiva.

Anacronia. Salto indietro nel tempo. Le “Great expectations” suggerite, probabilmente, sono quelle dell’aspirazione ad una vita serena e soddisfacente, al veder realizzarsi la continua e frenetica pulsione che rende consapevoli della necessità, in determinati cuori, di lasciare una pur minima traccia di sé su questo pianeta, con il rischio di vivere una vita perennemente alla vigilia di sé stessi. Una giornata solare (“A summer day”) e una fede unidirezionale (“A useless faith”) ma comunque rassicurante sono gli elementi basilari di un’infanzia vissuta sotto il segno di una serenità che sta per essere violata dalle difficoltà che l’esistenza riserva a chiunque si trovi nell’inevitabile condizione di crescere per forza di cose, di farsi una vita e di costruirsi un futuro, come se già la vita di per sé, il solo esistere, non bastasse già a camminare sereni sulla propria strada. No. Bisogna per forza fare qualcosa, correre rischi, sudare freddo per ottenere quello che dovrebbe essere già garantito. Una costrizione alla sfida. Un affronto senza colpe.

E allora, a metà strada, ad un incrocio pericoloso, mi trovo in ginocchio e disconnesso da quello che vogliono farmi intendere come realtà, vita sociale e civile. (“Kneel and disconnect and waste another year”). Non la condivido. Perché tanta severità? Perché ciò che mi circonda non sa fare altro che giudicarmi, puntarmi il dito contro ed accusarmi di assenteismo per scelte reputate astratte ed inconsistenti (il voler crescere d’animo come scrittore, musicista o quanto altro)? Sto solo seguendo quello che credo di essere, dopo tutto.

Non resta altro che tracciare una linea (“Drawing the line”) tra me e ciò che mi odia senza motivo, ciò che mi guarda dall’alto verso il basso con un ghigno di disprezzo. La traccio con l’orgoglio di chi non aspetta altro che il momento di tirare i conti a proprio favore (“And I have my pride”). Staremo a vedere.

Ma ecco che sono nel bel mezzo dell’incrocio. Senza semafori né vigili urbani. In mezzo a due strade che si incrociano lacerandosi e sanguinando. Nel bel mezzo di automobilisti incalliti che vogliono raggiungere a tutta velocità traguardi che nemmeno loro vedono ma di cui conoscono l’esistenza quasi solo per sentito dire. Il mio incidente (“The incident”) è questo: il non essere capace di attraversare la strada trafficata. Troppe auto. Troppo frastuono. Troppi clacson caotici. Troppa fretta di portare a termine compiti materiali. La mia attenzione, però, è attirata da un ammasso di rottami poco distante lungo il mio orizzonte: un grave incidente su una delle due strade ha distrutto diverse automobili. Qualcuno non prestava attenzione, andava troppo veloce e si è fatto male seriamente. Qualcuno, un mio simile, non ce l’ha fatta. Mi guardo intorno e mi perdo. Resto fermo nel mezzo dell’incrocio e aspetto chissà cosa. E io? Sto prestando sufficientemente attenzione pur vivendo di sogni? Devo continuare a guardarmi intorno o devo rivolgere lo sguardo dentro di me per capire cosa sta succedendo? Comincio a sentirmi solo lungo questo mio cammino… (“I want to be loved”).

Anacronia nell’anacronia. Provo un profondo senso di nostalgia per tempi in cui tutto questo non aveva senso, non era necessario. Ripenso, in sincronia con Steven, alle possibilità di fuga che poteva darmi il semplice vagare lungo i binari di un treno alla stazione in pieno inverno (il carillon emozionale di “The yellow windows of the evening train”), all’imbrunire, sotto un cielo plumbeo e attraverso quell’aria sottile e graffiante che solo gli inverni più cupi e solitari possono fornire sia ad un volto da screpolare che ad un anima da raffreddare nel fuoco dei suoi pensieri e delle sue indecisioni.

Ritorno all’incrocio. Il tempo vola: è l’unica cosa cerca che si conosce di questa esistenza passeggera (Time flies”). E, vuoi o non vuoi, bisogna cogliere tutto quello che il tempo porta con sé, al di là di ogni necessità individuale, al di là di ogni modesta e sincera presunzione (“But after a while you realize that time flies, and the best thing you can do is take whatever comes to you”). Bisogna saper fare tesoro anche e soprattutto di un buon boccale di birra di fronte ad un buon amico.

Ritorno al presente, al tema iniziale, con una valida variazione armonica dovuta alla consapevolezza del fatto che non si può sempre ottenere precisamente quello che si vuole: bisogna sapersi accontentare delle sfumature (“Degree zero of liberty”). Ma fa male, davvero male, vedere i propri sogni svanire, vedere crollare tutto quello che era stato archiviato sotto la voce “certezza”, sentire venir meno i pochi riferimenti costruiti e utilizzati come base per costruire il futuro desiderato. La perdita di un amico, il dissolversi in cenere di un amore, il cedere delle forze spese fino a quel momento: tutti elementi che riportano al punto di partenza per un eterno ritorno. Non c’è partita. Se la fortuna non viene mai da sola, allora nessun essere umano possiede le forze necessarie per costruire una propria dimora al riparo dalle fredde correnti degli inverni morali? Lievi fraseggi cercano di accarezzare un’anima schiacciata dal peso delle inevitabili responsabilità.

Un solo ed unico grido riecheggia nelle ritornanti melodie: qualcuno mi dia qualcosa in cui credere, adesso; qualcosa che mi faccia capire se sono ancora in grado di amare i tasselli che compongono la vita in cui mi hanno scaraventato (“Give me somethng new, please…something I can love”). Sto cercando, con tutte le forze che mi restano, di sciogliere il trauma di un desiderio portante mai raggiunto e soddisfatto, che sia un amore o la realizzazione di me. Sto provando, ad un costo molto alto, a scegliere una direzione da intraprendere in mezzo a quell’incrocio. Scopro che l’uomo dell’incidente sono io. Perciò, ora, sono ancora me stesso o una parte di me è morta per salvare quello che resta della sua anima?

Impazzisco. Piango. Urlo. Bestemmio. Mi raffreddo. Crollo. Odio. Quello che ho sempre cercato di essere e quello che sono effettivamente sono due facce della stessa medaglia che vanno in controtempo e si divorano l’una con l’altra per manie di sopraffazione (“Circle of manias”). Provo disgusto per tutto ciò che mi ha sempre ostacolato e continua ad ostacolarmi nel tentativo di realizzazione dei miei sogni più semplici. “Ci ho fatto il callo”, come si suol dire. La rabbia mi acceca. Non so davvero cosa fare più di quanto già fatto per vivere una vita di aspirazioni plausibili. Le vedo crollare. Ci sono mille alternative ma, ora, vedo soltanto buio al di fuori della mia finestra. Svengo.

Riapro gli occhi come ridestato da un sogno (e di sogno si è trattato, in effetti…anche se mai così realistico). Scorgo una leggera lacrima sulla mia guancia destra: assaporo la sua essenza salina prima di sospirare e rimanere fermo, supino. L’eccessiva rabbia ha divorato tutte le mie forze residue e mi ha lasciato, qui, inerte, a prendere coscienza di quello che, in sostanza, sono. Guido un carro funebre (“I drive the hearse”) accompagnato da arpeggi ed armonie che fanno da ninna nanna a desideri che so di non aver comunque mai lasciato spegnere completamente. Ma riesco soltanto a starmene in disparte, in silenzio, preda dei miei pensieri e di un avvenire da ricostruire (“And silence is another way of say what I wanna say”). Preferisco mentire a me stesso pur di non cadere nel profondo della convinzione che mi vuole come pedina di una scacchiera globale alla quale molti altri hanno accettato di prendere parte senza troppe titubanze (“And lying is another way of hoping it will go away”). E cercherò di fare in modo che tu, desiderio troppo presto liquefatto, amore tardivamente non più corrisposto, non sia più al centro dei miei sbagli (“And you were always my mistake”). Ho imparato la lezione: guido il carro funebre per l’uomo schiacciato dalle lamiere dell’incidente (“When I’m down I drive the hearse”).

L’ultima nota svanisce. Ritorno sulla superficie. Tiro fuori il cd dal lettore e non ho la forza emotiva di inserire il secondo. Non potrò fare a meno di riascoltarlo più e più volte per esorcizzare qualcosa che mi ha toccato dentro, qualcosa che mi ha ferito ma che devo sempre e comunque sapientemente celebrare. “The incident” non è soltanto un disco. È davvero qualcosa di più: un’esperienza vissuta da rivivere, qualunque essa sia. Un dolore da riprovare e, pertanto, da analizzare…per crescere, per conoscere…per commemorare e proseguire.

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